Il secondo giorno della visita di papa Francesco in Congo è stato segnato da due momenti: la messa con centinaia di migliaia di persone che si sono riversate dall’alba sulla pista dell’aeroporto di Ndolo e l’incontro con una delegazione di donne e uomini vittime di violenza provenienti della regione in guerra del Kivu.

ALLE SEI DEL MATTINO l’accesso alla pista dell’aeroporto è stato chiuso e l’organizzazione ha retto l’impatto della folla che si è mossa in modo ordinato. L’attesa è durata fino alle 9 quando il pontefice è arrivato. Si è trattato di una sintesi tra una celebrazione eucaristica, un concerto e un momento di orgoglio nazionale. I bassi spingono il movimento delle bandiere di una “woodstock” congolese molto assolata. Cinque ore di canti, balli e preghiere.

Il papa ha prima di tutto ringraziato i presenti: «Sono contento – ha esordito -, attendevo questo momento da oltre un anno». Ha poi commentato il Vangelo del Risorto ricordando che quelle tre parole, «pace a voi», sono «una consegna, più che un saluto». Sottolineando che le sorgenti della pace, le «fonti per continuare ad alimentarla sono il perdono, la comunità e la missione».

PAROLE CHE NON HANNO FATTO presa sui candidati alla presidenza della Repubblica che, si è visto chiaramente, si sono rifiutati di scambiarsi il segno di pace. Bergoglio ha concluso pronunciando alcune parole in lingala: moto azalí na matoi ma koyoka («chi ha orecchi per intendere») e la folla ha risposto ayoka («intenda»).
Nel pomeriggio alla nunziatura il papa ha ascoltato testimonianze dal Kivu come quella di un 16enne di Eringeti, nel territorio di Beni: «Sono un agricoltore. Mio fratello maggiore è stato ucciso in circostanze che ancora oggi non conosciamo. Mio padre è stato ucciso in mia presenza, da dove ero nascosto ho visto in che modo lo hanno fatto a pezzi e come hanno portato via mia madre. Siamo rimasti orfani, io e le mie due sorelline. Mamma non è più tornata e non sappiamo cosa ne abbiano fatto . Di notte non riesco a dormire».

LA GIOVANISSIMA Léonie Matumaini ha mostrato un coltello uguale a quello che ha ucciso tutti i membri della sua famiglia in sua presenza; Kambale Kakombi Fiston di soli 13 anni ha raccontato di essere stato rapito per 9 mesi; poi è stata la volta di una 17enne della zona di Goma ridotta in condizioni di schiavitù sessuale da un comandante per 19 mesi, finché con un’amica è riuscita a scappare: «Ma a quel punto ho scoperto di essere incinta. Ho avuto due bambine gemelle, non conosceranno mai il loro padre». Poi ha proseguito dicendo che «le persone sono state sfollate più volte, i bambini sono rimasti senza genitori, sono sfruttati nelle miniere o negli eserciti ribelli». Anche un’altra donna di Bukavu racconta di essere «stata tenuta come schiava sessuale . Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi».

DA BUNIA (ITURI) UN TESTIMONE racconta: «Sono sopravvissuto a un attacco al campo di sfollati di Bule, nel villaggio di Bahema Badjere, nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri. Questo campo è conosciuto come “Plaine Savo”. L’attacco è avvenuto la notte del 1° febbraio 2022 da parte di un gruppo armato che ha ucciso 63 persone, tra cui 24 donne e 17 bambini. Viviamo in campi profughi senza speranza di tornare a casa».
Francesco, visibilmente commosso, ha detto di essere senza parole «davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle. Si resta scioccati e non ci sono parole, c’è solo da piangere, in silenzio. Il mio cuore – ha proseguito – è oggi nell’Est di questo immenso Paese».

IN QUELLA REGIONE, ha proseguito il papa, «si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione».

Bergoglio ha poi ricordato l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, uccisi due anni fa nell’Est del Paese. «Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto».

Più che un secondo giorno di visita, un programma politico decennale.