«Winning time», ascesa di una dinastia del basket
Serialità La fiction Hbo prodotta da Adam McKay racconta l’epopea dei Lakers negli ’80 con sensibilità vintage. Il ruolo di Magic Johnson, l’affermazione dell’Nba, la contaminazione tra sport e spettacolo negli Stati uniti
Winning Time apre sui sussurri preoccupati del personale della clinica californiana dove, nel 1991, Magic Johnson è appena risultato sieropositivo all’Hiv. Si trattava di un momento topico e storico dello sport e, sembrava, la drammatica fine di una meteorica carriera per il geniale playmaker dei Lakers di Los Angeles che aveva dominato il basket americano per un decennio.
Earvin «Magic» Johnson aveva contribuito a fare dell’Nba uno dei campionati più globalmente rinomati di qualsiasi sport, grazie in gran parte all’affermarsi della sua squadra come simbolo di una pallacanestro reinventata come disciplina fantasmagorica, spettacolare, veloce e venata di glamour. Negli anni 80 i Lakers divennero celebri non solo per i loro contropiede fulminanti e l’inimitabile stile di gioco (che gli valse cinque titoli nazionali nell’arco di nove anni), ma ugualmente rinomati per le «Laker Girls» coreografate da Paul Abdul ed il tifo sfegatato di Jack Nicholson e altre star abbonate a bordocampo.
LA SERIE HBO è basata sul libro di Jeff Pearlman, Showtime: Magic, Kareem, Riley and the Los Angeles Lakers Dynasty of the 1980’s. Nell’adattamento di Max Borenstein e Max Hecht, ripercorre i retroscena che contribuirono a trasformare la squadra (e una pallacanestro ancora giovane e poco seguita) nello «showtime» che era marchio di fabbrica dei Lakers – riferimento sia al gioco velocizzato e fluido che all’immagine contaminata di Hollywood e hip hop adottata ad inimitabile brand dal proprietario Jerry Buss.
Quest’ultimo è personaggio centrale del flashback corale che parte dal 1979, quando il poliedrico ex professore di chimica applicata, poi imprenditore e titolare di un impero di investimenti immobiliari, acquista la squadra che, seppur basata nel secondo mercato mediatico d’America, stenta a conquistare titoli rimanendo piuttosto comprimaria in un campionato (ed una lega) dominata da potenze dell’Est – in particolare gli invincibili Celtics di Boston che hanno l’abitudine di infliggere proprio ai Lakers sonore batoste nei playoff.
Dopo l’acquisizione, finanziariamente rocambolesca, Buss – perfettamente interpretato da John C. Reilly – pur contro i consigli di commercialisti e commissari tecnici, punta la ricostruzione dell’organico sull’acquisto del giovane Earvin Johnson, uscito dal campionato universitario in Michigan con la reputazione di ragazzo prodigio ed uno smisurato talento. I dieci episodi coprono le prime fasi della «ascesa della dinastia Lakers» che deve però inizialmente superare numerose crisi. Per dirne una, l’arrivo del giovane asso provoca forti tensioni fra i giocatori, soprattutto con Kareem Abdul Jabbar, leggendario pivot dall’inimitabile tiro sky hook, vincitore a ripetizione di titoli Mvp ma, a 32 anni, giunto a quello che sembra un crepuscolo di carriera. Fra lui, militante nero convertito all’Islam e «intellettuale» dello spogliatoio che ama ascoltare Miles e Coltrane, e l’esuberante «rookie» Johnson, che sprizza simpatia e nel vestiario spara Jackson Five a massimo volume dallo stereo, volano subito scintille.
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INTANTO JERRY WEST giocatore convertito in allenatore dà le dimissioni e a poche settimane dall’inizio del campionato urge trovare un sostituto. Winning Time è prodotto da Adam McKay (Don’t Look Up), che, oltre ad essere produttore esecutivo firma anche da regista l’episodio iniziale.
Come aveva già fatto in film come Vice, biografia semi satirica del vicepresidente Dick Cheney, e Big Short sulle speculazioni della Wall street dello scandalo subprime, McKay torna a qui a scavare nella modernità americana per produrre una sorta di archeologia culturale. La serie è un oggetto squisitamente vintage che ricostruisce amorevolmente una Los Angeles d’epoca, applicando una patina alternatamente di pellicola 16 mm e video betacam per fissare un’era inequivocabilmente analogica.
L’operazione non può quindi che rammentare altre rievocazioni della Città degli Angeli, soprattutto quelle di Paul Thomas Anderson (forse anche perché le mises rigorosamente seventies di John C. Reilly non possono che rimandare a Boogie Nights). La stessa sensibilità un po’ manieristicamente vintage è applicata qui ad una narrazione in cui verità storiche convivono con satira e commedia e l’esattezza documentaria è comunque subordinata alle esigenze dello storytelling. Un approccio che non è risultato gradito al vero Magic, oggi più che mai vivo e vegeto ed egli stesso proprietario di grandi club (come i Dodgers di Los Angeles). L’ex giocatore ha pubblicamente sconfessato la serie lamentandosi su «Variety» di non essere stato interpellato direttamente.
IL RACCONTO DI MCKAY però è anche – e forse soprattutto – affabulazione in cui hybris capitalista e business sportivo si mescolano in una «origin story» della società dello spettacolo. Se Winning Time (di cui è stato appena annunciato il rinnovo per una seconda stagione) a tratti è vittima della stessa fascinazione col proprio soggetto, indecisa fra agiografia e sguardo critico, rimane pur sempre un’operazione magistrale di fiction retró che attinge al linguaggio documentario, televisivo d’epoca e filmico per confezionare un irresistibile oggetto di nostalgia. Né nuoce un cast d’eccezione che oltre a Reilly comprende Jason Clarke, Adrien Brody, Jason Segel, Tracy Letts e Sally Field.
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