Garrett Bradley, la speranza come dispositivo visionario
Schermi dell'arte A colloquio con l'artista e filmmaker cui il festival di Firenze ha dedicato un focus
Schermi dell'arte A colloquio con l'artista e filmmaker cui il festival di Firenze ha dedicato un focus
America di Garrett Bradley è un film del 2019 che segna una cronologia visiva della storia nera statunitense. La narrazione ha inizio nel 1915, lo stesso anno che al cinema Nascita di una nazione di D. W. Griffith racconta l’ascesa del KKK. E già dai primi fotogrammi, la presenza del popolarissimo attore afroamericano Bert Williams aleggia sul film, con frammenti del suo Lime Kiln Club Field Day del 1913, il primo film con un cast interamente afroamericano. La camera segue una donna camminare lungo una strada che attraversa campi di canna da zucchero, fermarsi davanti un uomo nell’uniforme del KKK, strappargliela di dosso, e ricomporla nella forma di un tessuto bianco.
LIBERATO dalla sua precedente identità, vediamo il tessuto correre attraverso le piantagioni della Louisiana, volare in cielo, inciampare su un filo del bucato e cadere nel quartier generale dei Buffalo Soldiers prima e a un raduno dei Boy Scouts of America dopo. Seguono momenti quotidiani di gioia, amore, gioco e umanità della comunità afroamericana. «In realtà stiamo seguendo una sorta di traiettoria e stiamo anche esplorando un’idea attorno al tessuto bianco che come una bandiera senza colore riesce a cambiare significato e acquisire potere a seconda da chi la tiene», spiega Bradley in una conversazione telefonica.
È un racconto che riempie i vuoti e modifica la percezione della storia quella raccontata in America, un film che torna a Firenze – all’interno del focus su Garrett Bradley dello Schermo dell’Arte, festival di cinema e arte contemporanea alla sua 17/a edizione, diretto da Silvia Lucchesi e curato da Leonardo Bigazzi – dove era stato già presentato nella 13/a edizione.
LA SCELTA DELL’ARTISTA di riproporre America è maturata in seguito ai risultati delle elezioni presidenziali che hanno visto la vittoria di Donald Trump. «In questo momento più che in ogni altro dobbiamo diffondere grazia. Specie in un periodo nel quale il leader che rappresenta di Stati Uniti d’America non ci rappresenta affatto. Perché a prescindere da cosa esprima il voto popolare, le opinioni e le prospettive restano molteplici. E altrettanti sono i modi in cui gli esseri umani e le comunità si sforzano di creare un mondo più amorevole e giusto. Se questo aspetto tende a emergere meno nelle notizie, allora dovrà diventare manifesto nell’arte».
In questo momento più che in ogni altro dobbiamo diffondere grazia. Specie in un periodo nel quale il leader che rappresenta di Stati Uniti d’America non ci rappresenta affatto
IL VANTAGGIO di una pratica cinematografica che nella scrittura della storia fa collassare la cronologia del passato, interrompendolo e manipolandolo di continuo, è quella di riuscire a fare spazio alla speranza, perfino quando la realtà presente sembra riservare solo schiaffi. «La speranza è una qualità essenziale dell’essere umano. È parte del nostro dna, la ragione della nostra esistenza, quella per cui ogni mattina ci alziamo. È una scelta, e non possiamo permetterci di darla per scontato, e ciò che deriva da quella scelta è fondamentalmente un luogo di ottimismo», dice Bradley.
La speranza è la colonna portante di Time (2020) che le è valso una nomina agli oscar, un documentario su Fox Rich, la donna che per vent’anni ha lottato per il rilascio del marito, condannato a 60 anni di carcere per una rapina commessa da entrambi all’inizio degli anni ’90. Time è un’occasione per il pubblico di godersi un cinema documentaristico che mostra una grande sensibilità nei confronti delle sue protagoniste. Come emerge chiaramente anche in Alone (2017), parte della programmazione Controluce: Stories of Beauty a cura di Michele Bertolino, attraverso un sofisticato esercizio della distanza. Nel film seguiamo Aloné Watts, una giovane donna di New Orleans, mentre lotta con la sua decisione di sposare Desmond Watson, incarcerato per un anno senza un processo o udienza. Seguiamo la camera avvicinarsi ad Aloné mentre sogna il suo matrimonio, mantenere la distanza quando sulle scale del tribunale lei parla con l’avvocato, rimanere fuori dalla porta in una delle scene emotivamente più intense, quando dalla madre non ottiene la benedizione per le nozze. «Lo zoom per me è uno strumento fondamentale, perché mi permette di restituire insieme il contesto generale e il particolare in un unico fotogramma, e mi aiuta a cogliere la relazione tra questi due elementi», afferma Bradley.
UNA PRATICA della distanza, nell’ambito documentaristico, che rivela grande empatia nei confronti delle sue protagoniste, rinunciando alla loro presenza, quando è necessario. «A partire dalla consapevolezza che alcuni momenti possano essere particolarmente difficili per le persone coinvolte nei miei film, le rispetto e riconosco loro il bisogno di spazio. Sono convinta che le loro parole, le loro vicende, il dolore e l’amore che provano riescano a raggiungere il pubblico anche attraverso la loro assenza. Anzi, a volte credo sia il modo migliore».
Il vantaggio di una pratica documentaristica come quella di Garrett Bradley è quello di riuscire a cogliere una realtà che sembra incresparsi, arricchendosi progressivamente di sfumature. Va in questa direzione AKA (2019) il cortometraggio sperimentale che esplora il rapporto tra madri e figlie nate in famiglie di razza mista o famiglie della stessa razza con diversi toni della pelle. Qui le immagini ondulate, il riflesso nell’acqua e l’uso del vetro, con ciò che comporta in termini di riflessi e colori prismatici, riflettono sulle sfumature e la complessità di ciò che è la verità, di ciò che è la giustizia e il ruolo che le aree grigie potrebbero svolgere nel sostenere l’immaginazione. «Mi piace pensare che sia la forza del mio lavoro, quella di fornire le immagini di realtà molteplici, di come queste scivolano l’una sull’altra in maniera fluida, e di riuscire a raccontare quando questo accade».
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