William Carlos Williams, non ci sono idee, se non nelle cose
Charles Demuth, «Modern Conveniences», 1921
Alias Domenica

William Carlos Williams, non ci sono idee, se non nelle cose

Poeti statunitensi Una febbrile «incoerenza» anima i versi di William Carlos Williams: «A un discepolo solitario», ampia antologia di quasi tutta l’opera, tradotta da Damiano Abeni per Bompiani
Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 marzo 2023

Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1948, William Carlos Williams scrisse che Eliot con la sua Terra desolata «spazzò via il nostro mondo come se una bomba atomica vi fosse stata sganciata». Il suo mondo era quello in cui aveva incontrato Ezra Pound, Hilda Dolittle, il pittore Charles Demuth e nel quale aveva imparato il gusto nell’arte dal collezionista e poeta Walter Arensberg. Di Eliot, Williams detestava non tanto la poesia quanto lo snobismo, e infatti in una lettera del 1945 immaginò questo dialogo tra Eliot e Gesù: «Cristo: Nella mia casa ci sono molte stanze. Eliot: Prenderò quella d’angolo al secondo piano con vista sui prati e sul fiume. E CHI È questa plebaglia che ti segue dappertutto? Cristo: Gente che ho incontrato nei miei viaggi. Eliot: Be’, se devo seguirti, devo avere un’idea più chiara della sistemazione dei tuoi alloggi. Cristo: Certo, signore».

Williams era nato a Rutherford, nel New Jersey, nel 1883, ma le sue «radici» (parola chiave nella sua poesia) toccavano l’Europa come le Indie Occidentali. Suo padre, inglese di nascita, era cresciuto nella Repubblica Dominicana. Sua madre, di origine francese, era nata a Porto Rico e aveva studiato arte a Parigi. I genitori gli parlavano in spagnolo, ma lo mandarono a passare due anni di liceo a Ginevra e Parigi. Nel 1902 si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università della Pennsylvania, ma per specializzarsi in pediatria andò a Lipsia, da dove ritornò nel 1912 per sposare Florence Herman, la «Flossie» delle sue poesie, con la quale si stabilì di nuovo a Rutherford. Nel 1924 fu nominato primario di pediatria al Passaic General Hospital, incarico che mantenne tutta la vita. Era un medico coscienzioso.

Stando ai suoi biografi pare che abbia aiutato a nascere tremila bambini:

«entrano nel nuovo mondo nudi,
freddi, insicuri di tutto
tranne del loro entrare. Tutt’attorno
il vento gelido, familiare
(…) il rigoroso decoro dell’entrare – Eppure, il profondo cambiamento
li ha sopraffatti: radicati
s’afferrano al profondo e intraprendono il risveglio».

Così scrive in Spring and All, la raccolta del 1923 che lo impose come poeta. Alla bella traduzione integrale di Tommaso Di Dio (La primavera e tutto il resto, Ibis 2021), ora si affianca A un discepolo solitario (curata e introdotta da Luigi Sampietro e tradotta da Damiano Abeni, Bompiani, pp. 480, € 24,00) ampia antologia di quasi tutta la sua opera. Manca Paterson, il capolavoro della maturità, poema unitario in poesia e prosa e più difficilmente antologizzabile. La traduzione di Alfredo Rizzardi (Mondadori 1966 e 1997), ormai introvabile, meriterebbe una ristampa o un aggiornamento.

Williams ha un posto sicuro nel canone del Novecento, ma non è facile capire quale sia. Già nel 1920 il circolo imagista raccolto intorno a Pound aveva giudicato la sua poesia «incoerente» o addirittura «impertinente». Le sconnessioni del suo dettato, la sua attenzione per i particolari minuti che a poeti di più grandi ambizioni sembravano banali, il suo rapidissimo muoversi da un’immagine all’altra come un’ape impazzita, non sembravano accordarsi con la gravità richiesta al poeta vate che deve rifondare il mondo. Nel 1922, fu appunto l’apparire della Terra desolata a porre fine alle speranze coltivate da Williams di essere riconosciuto come poeta d’avanguardia, e anzi stese un’ombra di malinconia sulla sua carriera che si sarebbe sollevata soltanto negli ultimi anni, quando i riconoscimenti cominciarono ad arrivare. Eliot, scrisse nell’autobiografia, «ci fece tornare come a scuola, proprio nel momento in cui io sentivo che eravamo (…) molto più vicini all’essenza di una nuova forma d’arte, radicata nella località alla quale doveva offrire i suoi frutti».

Questa località, per il figlio di un inglese e di una francese portoricana che parlavano spagnolo e che aveva avuto un’educazione europea, era l’America, della quale si sentiva figlio a pieno titolo, come gli emigranti che incontrava all’ospedale di Rutherford e come i loro figli che aiutava a nascere. Per molti aspetti rimase sempre un imagista/cubista, ma mai un astrattista. Il suo motto, come si legge in Una specie di canzone (1944), era «niente idee / se non nelle cose». Cose e non oggetti, anche se va ricordato che Vittorio Sereni è stato tra i traduttori di Williams e che la poetica degli oggetti gli deve pure qualcosa.

Per Williams, le «cose» sono un intermondo di metamorfosi istantanee in cui fiori e alberi, nominati e descritti con precisione pascoliana, si intrecciano con persone, corsi d’acqua, attrezzi e cibo (la sua famosa carriola rossa, le sue famose prugne gelate) in una mimesi totale, in cui la differenza tra il verso che si depone sulla pagina e l’aprirsi di una corolla non si deve nemmeno avvertire, in cui la bambina Filomena Andronico che gioca con una palla rossa deve prendere la stessa forma delle parole che la descrivono.

Williams non era un intellettuale, e anche perciò venne discretamente snobbato; ma aveva letto un po’ di Alfred North Whitehead, e da lui aveva preso il fatto che nei suoi versi le «cose» sono sempre «processi», non sono mai ferme in un incrocio di spazio e tempo. La sua quasi goethiana passione per la botanica dà forma a poesie che sono vere e proprie Steigerungen, processi di accrescimento. Si può capire la sua ostilità nei confronti del correlativo oggettivo, che blocca uno stato d’animo in una metafora invece di liberarlo in un’analogia. La febbrile «incoerenza» di Williams, che raggiunge il suo culmine in Two Pendants: For the Ears (1950), nasce dalla convinzione che nulla può essere fissato, la realtà non si ferma mai, crea e ricrea il descritto come il descrittore.

Two Pendants non è compresa nell’antologia Bompiani, e però costituisce già un punto di riferimento obbligato, insieme a La primavera e tutto il resto e a Nelle vene dell’America (Adelphi  1969 e 2015) per chi voglia avvicinarsi a Williams. La traduzione di Abeni è impeccabile e tanto «visiva» quanto l’originale.

Peccato per la svista rimasta nell’Ostia, dove Abeni traduce «the Lord is my shepherd / I shall not want» con «il Signore è il mio pastore / che non vorrò». Ma il verso è una citazione diretta dal Salmo 23, dove «I shall not want» nell’inglese della King James Bible significa «nulla mi mancherà».

A parte questo e poco altro, le acrobazie di Williams sono perfettamente rese in italiano, e giustificano la rivincita che Williams si è poi preso sui suoi contemporanei. Non tanto sui banchi di scuola, dove Eliot ha regnato sovrano, bensì fra i poeti americani della generazione successiva, verso i quali fu prodigo di lettere, consigli e incoraggiamenti. Dopotutto, Eliot e Pound avevano lasciato l’America, e nel caso di Pound l’avevano anche tradita. Williams non era Whitman, ma voleva che la sua poesia fosse tanto americana quanto quella di Whitman, e questo gli è certamente riuscito.

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