William Atkins, dispacci dalle terre vuote
Scrittori inglesi Racconto di viaggi e di meditazioni, «Un mondo senza confini» restituisce teorie e prassi relative al deserto, un «intreccio di equilibri che si autoregolano»: da Adelphi
Scrittori inglesi Racconto di viaggi e di meditazioni, «Un mondo senza confini» restituisce teorie e prassi relative al deserto, un «intreccio di equilibri che si autoregolano»: da Adelphi
Frutto di esplorazioni attraverso le regioni desertiche più remote e più ostili del pianeta – in Oman, Australia, Cina, Kazakistan, Stati Uniti, Egitto – l’ultimo libro di William Atkins, Un mondo senza confini Viaggi in luoghi deserti (traduzione di Francesco Francis, Adelphi, pp. 440, € 28,00) illustra con scrittura incisiva, lapidaria e a tratti labirintica, un’idea del deserto sia come rifugio per la libera espressione della fede o del pensiero, sia come luogo solitario e imperscrutabile, inaccessibile e incommensurabile, come recita il titolo originale, The Immeasurable World.
Affiancando passaggi caustici ad altri drammatici, Atkins, che già si era confrontato con altri luoghi remoti, nel suo Exiles: Three Island Journeys, va oltre l’immagine stereotipata del deserto, confutando un certo numero di luoghi comuni. Lungi dall’essere silenzioso e immobile, come spesso viene rappresentato, il deserto – «un intreccio di equilibri che si autoregolano» – stordisce grazie allo strepito e alla forza modellatrice del vento e delle voci che lo attraversano. E la sabbia è, per il viaggiatore del deserto «un elemento mobile e impulsivo quanto l’acqua».
Sebbene Atkins non segua le tracce lasciate dai romantici europei dell’Ottocento nelle loro idealizzazioni degli abitanti del deserto, trapela tuttavia dalle sue pagine qualche nostalgia per un modo di vivere alternativo com’era stato quello nomade e ascetico dei beduini, prima che la scoperta del petrolio nel sottosuolo della penisola arabica li condannasse a una diversa marginalità; o prima che i test nucleari nei deserti del Nevada, Kazakistan, Cina, India, Sahara francese e Australia, stravolgessero la vita delle persone che da generazioni li percorrevano.
Proprio all’Australia e al suo desertico «interno rosso» è dedicato uno dei capitoli più avvincenti del volume. Gli immisurati territori incoltivabili del Gran Deserto Victoria si pararono dinnanzi ai primi esploratori del XIX secolo, che si erano dati come obiettivo l’approdo a «quel centro ancora inviolato come una verde cornucopia di abbondanza», sognando inesistenti fiumi e laghi. Nel 1828, l’esploratore Charles Sturt era così certo della presenza di un vasto mare al centro del continente che arrivò a costruire una baleniera, ma l’acqua che scoprì «bastò a malapena a dissetare i cammelli».
Più fortunati, gli occidentali si adoperarono allo sfruttamento del suolo e delle popolazioni indigene. Nel giro di poche generazioni, l’arrivo degli inglesi in Australia cancellò il popolo Anangu che per almeno quattromila anni aveva calpestato quelle terre desertiche: «lì l’uomo bianco aveva cose da fare». Costringere le tribù locali al battesimo di massa, per esempio, o impiantare aziende di estrazione di materie prime (come petrolio e zircone) e, da ultimo, far esplodere ordigni atomici.
Atkins irride il mito posticcio dell’autenticità, versione contemporanea della ricerca orientalista delle radici, raccontando di novelli T. E. Lawrence che tentano di ripercorrerne l’epopea con troupe di supporto, fuoristrada e gps elargiti dai finanziatori dell’avventura. Difficile, ormai, vestire i panni del pioniere, fra manager viaggiatori, esibizioni di sofferenza organizzata, escursioni sponsorizzate in canoa o bicicletta: «la libertà – si legge – non è solo per i virtuosi».
Residui di autenticità vengono scovati da Atkins in territori desolati attraversati con vecchie automobili, treni, minibus o mezzi di fortuna e a volte nelle conversazioni con i locali, o con viaggiatori da tempo lontani da casa, a volte limitate a sguardi incuriositi e sorrisi imbarazzati.
Tutt’altra pista quella involontariamente tracciata dai migranti, e tra loro da quelle moltitudini che la miseria o le guerre civili spingono a avventurarsi nel deserto al confine, mobile e poroso, tra Stati Uniti e Messico, transitando per «rotte costellate di ossa». In Arizona, Atkins accompagna un gruppo di attivisti – i No More Deaths – impegnati a fornire cibo, acqua e cure a uomini e donne che cercano di attraversare il deserto tra la frontiera messicana e Tucson. Esempio drammatico di una guerra a bassa intensità contro i poveri, il famigerato accordo Nafta, che ha aperto il mercato americano ai consumatori messicani, ha comportato la rovina di intere comunità indigene di piccoli agricoltori che, non potendo competere con i giganti americani, vengono spinte a lasciare le regioni rurali per rischiare la vita nel deserto.
Incubo dei diseredati che fuggono dalla fame e dalla violazione dei diritti umani, il deserto ha coinciso, per gli hippies d’antan, con un sogno psichedelico, evocando un mondo dove l’anarchia regna sovrana accanto alla sospensione del giudizio: schiere di viaggiatori hanno sfidato, negli anni, uno degli ambienti più inospitali della Terra, il deserto del Nevada, per partecipare ogni estate al « Burning Man», un festival libertario, fantasmagorico nella sua stravaganza e dissolutezza.
Nonostante la radicalità degli eremiti gli provochi una niente affatto nascosta repulsione, Atkins è partecipe della loro aspirazione a una dignità irraggiungibile nel «mondo»; per parte sua, si limita a sfruttare l’ospitalità di un convento del Deserto Orientale egiziano consacrato a Sant’Antonio (figura reiteratamente evocata nel libro nelle sue innumerevoli rappresentazioni) dove constata come la vita monastica non sia cambiata poi molto rispetto alle descrizioni dei viaggiatori del Seicento.
All’interesse per un ecosistema che resiste al processo di modernizzazione, Atkins somma una curiosità antropologica verso le popolazioni che gravitano intorno ai luoghi più desolati, per poi approdare a una visione minimalista, dove tutto si riduce a sabbia, orizzonte, cielo, vento, – «il deserto come lo immaginerebbe un cieco».
Mentre si muove tra lande desolate, alle più svariate latitudini – medio-orientali, asiatiche o americane – il deserto si presenta a Atkins come un concentrato al tempo stesso di rischi e di opportunità, i riferimenti del quale stanno in «una biblioteca i cui scaffali non sono mai stati occupati». Da Erodoto a Steinbeck, ricalcando i passi dei grandi narratori di viaggio che lo hanno preceduto, Atkins sembra constatare come non si possa pretendere di viaggiare se non sulle orme di altri, venuti prima di noi.
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