Ha studiato zoologia e adesso è uno dei vignettisti del prestigioso settimanale New Yorker; poi con un altro balzo, ha scritto e disegnato il suo primo graphic novel, In, che adesso Tunué pubblica in Italia con il titolo Entra e la traduzione di Francesco Pacifico. Will McPhail, ospite dell’Arf! Festival del fumetto di Roma, ha presentato il suo libro alla libreria Spaziosette, dove l’abbiamo intervistato prima che il suo tour toccasse anche Napoli, Venezia, e in questi giorni, il Salone del Libro di Torino.

Come nasce questo libro e come si affronta la prima narrazione lunga quando si è un famoso vignettista?
È stato terrificante all’inizio, ma ho apprezzato la libertà di muovermi al di fuori dello spazio di una sola vignetta e di avere un’intera pagina per raccontare e seguire un personaggio; è un’esperienza liberatoria. Al tempo stesso riconosco che seguire un personaggio nella sua evoluzione è molto diverso da disegnare una vignetta con un piccione-cosa che mi succede con il New Yorker– e poi scordarmene. Imparare a creare e mantenere il ritmo della narrazione, disegnare personaggi riconoscibili lungo tutta la storia è stato molto formativo.

«Entra» racconta la storia di un giovane illustratore, Nick, e di come la sua incapacità di comunicare incida direttamente sulle sue relazioni, riducendole a una disarmante superficialità. Una caratteristica di tutta la nostra società. Com’è nato il soggetto?
Il libro si concentra su un paio di personaggi, ma è ovviamente un commento su un problema sociale di un mondo dove ognuno parla con l’altro ma nessuno sembra dire quello che davvero vorrebbe. Ogni personaggio nel libro ha un modo diverso di oscurare la propria interiorità. Sono affascinato da come una combinazione di lettere e parole possa rimpiazzare una «conversazione performance» con una connessione genuina che è, in confronto, un’esperienza quasi trascendentale. Quando il mio agente mi ha chiesto se avevo un progetto lungo, ho subito pensato di raccontare questa dinamica.

Nick, un giovane artista che vive in una città gentrificata, sembra un campione di contemporaneità occidentale. C’è una base autobiografica?
Sì, sono abbastanza disonesto e non molto sveglio, come lui…e mi somiglia: anch’io sono sempre stato più a mio agio con le immagini che con le parole. Non copio la mia vita nella fiction, preferisco rivestire i miei racconti di elementi tratti dalla mia realtà. Il fatto di non saper comunicare diventa un problema urgente per esempio come nel caso di una malattia di un caro, o peggio, di una perdita. E questa è un’esperienza che ci accomuna.

Nick parla attraverso i dialoghi ma anche con un intenso monologo interiore, dal quale emergono verità che è incapace di pronunciare.
È una scelta stilistica intenzionale per mostrare le parole interiori e i pensieri che il personaggio non riesce a dire; il monologo interiore sparisce, quando il protagonista inizia a vivere fuori dal sé e a parlare sinceramente. La prima volta che questo accade, nel dialogo il ballo non ha una forma accidentata, come se il discorso uscisse a fatica dalla bocca del personaggio.

La concretezza e veridicità della comunicazione cambiano l’aspetto grafico del racconto: da una struttura più o meno di gabbia classica e in bianco e nero, ogni volta che il protagonista entra in connessione con l’altro il racconto si apre in sequenze a colori che rappresentano il suo paesaggio interiore, come vere e proprie epifanie.
Volevo mostrare come sia netta la differenza tra una banale conversazione e una connessione genuina. Questa tavole sono il tentativo di descrivere l’interiorità delle persone quando questa connessione si verifica; sono mondi eccitanti, paurosi, colorati e bellissimi che mi servivano a rendere il contrasto con la banalità della vita di tutti i giorni.

Anche gli spazi sono molto significativi e comunicativi: c’è la casa della madre di Nick, diroccata e vuota e poi le caffetterie dove Nick è solito recarsi per lavorare, che hanno insegne attraenti e stupidamente raffinate e svelano la nostra tendenza a costruirci un’immagine molto più socializzante e spigliata di quanto non riusciamo ad esserlo nella vita reale…
È un po’ la questione di Instagram vs reality: anche quest’espressività dei luoghi è il risultato del tentativo di illustrare la nostra comune superficialità. Nel rapporto con la madre, Nick è quasi autoassolutorio, non si preoccupa di capirla al di fuori del ruolo di madre. L’appartamento che ristrutturano scambiandosi poche parole è vuoto; le caffetterie sono pretenziose, orribili manifestazioni di uno stile di vita di facciata, noioso se paragonato con la vera vita dei legami affettivi.

Le insegne dei bar sono uno degli elementi dove si apprezza la vena ironica del vignettista, il cui obiettivo è quello di far critica sociale e polemica strappando una risata al lettore. Come hai dosato il tuo sarcasmo in questa storia profonda e drammatica?
Anche le vignette possono essere drammatiche! La mia editrice era convinta che fossi già abbastanza buffo e mi ha consigliato di concentrarmi sul dramma. Lavorato durante la pandemia, il libro non poteva che essere triste.

L’ironia è anche la cifra dell’incontro con Wren, la dottoressa della quale Nick si innamora, ma che paradossalmente sarà anche la persona che le negherà la possibilità di comunicare…era una necessità della trama o piuttosto è la vita che ci mette alla prova?
All’inizio ho disegnato i protagonisti come su un palcoscenico, perché credo che i primi incontri siano momenti molto performativi. Anche Wren recita e attraverso la sua comicità si nasconde; poi il suo lavoro entrerà in conflitto con la loro relazione. Ho molte persone care nel mio entourage che lavorano nella sanità e ho constatato la difficoltà di tenere rapporti personali e professionali legati, quando si tratta di cura e di medicina. Mi sono aiutato con il parere degli esperti e nella storia era affascinante poter sperimentare questa apertura e connessione con l’altra persona per poi negarla e mostrare come, per quanto fosse straziante, quell’emozione valesse la pena.

«Entra» è quindi un racconto sulla perdita, ma forse anche sul valore della cura?
Sì, sicuramente. Una delle chiavi di lettura e degli elementi cardine della storia che volevo consegnare ai lettori è che merita esplorare e scoprire i mondi altrui, anche se poi siamo destinati a perderli. Arricchirsi dell’altro, per quanto egoista possa sembrare è il senso di ogni relazione, anche se la perderemo. Mentre lavoravo al libro è stata quest’intuizione che mi ha colpito e convinto: quando si è costretti a lasciare andare un essere amato non si ha più la possibilità di esplorare il suo mondo. Eppure, se si è raggiunta una vera connessione, questi mondi continuano a vivere dentro di noi…e forse anche questo è in parte un po’ egoista.

Dopo questo libro in Inghilterra è uscita una raccolta di vignette «Love and vermin»; hai una passione per gli animali in particolare quelli sgradevoli, tipo topi e piccioni. Perché?
Quando ho proposto il graphic novel all’editore, mi ha detto che avrei dovuto fare un altro libro di vignette e così ho raccolto queste, camuffando con il titolo l’idea primigenia, che riguardava il sesso e i piccioni. Non saprei da dove viene il mio interesse per ratti e piccioni: mi rivoltano lo stomaco e mi scaldano il cuore allo stesso tempo, mi affascinano.

Hai altri progetti lunghi nel cassetto?
Sì, mi piacerebbe un giorno misurarmi con un romanzo senza illustrazioni, di sole parole.