I capelli corti, tinti di un colore rossiccio, Julian Assange è davanti allo specchio di un bagno e sta mettendosi delle lenti a contatto verdastre. Quell’immagine, ripresa dal vano della porta, diventerà chiara più avanti, in Risk, il nuovo documentario di Laura Poitras, presentato ieri alla Quinzaine des Realizateurs e di cui si erano visti alcuni frammenti allo scorso New York Film Festival. Dopo Edward Snowden, la regista americana dedica il suo nuovo lavoro a Julian Assange, con un doc contaminato anche lui dai toni di thriller che dominavano Citizenfour – anche se questo è un film meno «in corsa», meno controllato dagli eventi, e che funziona più come una riflessione/ricostruzione a posteriori, e come un oggetto più tradizionalmente «di denuncia».

In parte è una sensazione determinata dalle circostanze stesse del film.
Poitras aveva infatti iniziato a girarlo (prima che Snowden la contattasse), dopo che, nell’aprile 2010, WikiLeaks aveva postato il video con la ripresa, da un elicottero, in cui si vedevano soldati americani falcidiare un gruppo di civili iracheni e due fotografi della Reuter. Era la prima delle leaks esplosive rilasciate dal sito di Assange. Con l’entrata in scena di Snowden, Poitras aveva messo da parte il girato già accumulato su WikiLeaks, e si era concentrata sulla nuova storia. In Risk, Snowden, e la sua fuga da Hong Kong a Mosca vengono riassorbite in una cronologia più complessa e nel contesto di una rivoluzione dei sistemi dell’informazione, che il film attribuisce ad Assange e alla sua creatura. «Julian Assange è parte di una generazione che ha capito – sia dal punto di viste geopolitico che da quello tecnologico – la capacità che internet ha di spostare gli assi di potere, dando ai cittadini la possibiltà di avere un impatto sugli affari globali e ai governi quella di ammassare potere e controllare le popolazioni», scrive la regista sul press book del film. E ancora: «Cambiando per sempre il funzionamento del giornalismo WikiLeaks ha permesso l’entrata in scena di persone come Edward Snowden e Chelsea Manngin».

Cinematograficamente meno elaborato ed emozionante di Citizenfour, Risk apporta nuovi dettagli all’intricato puzzle della sorveglianza governativa – Usa e non. In uno dei momenti/episodi (è diviso in 10) più interessanti, dopo aver cercato invano di raggiungere Hillary Clinton, Assange parla al telefono con un avvocato del dipartimento di stato, allertandolo dell’imminente rilascio di documenti non redacted, di cui non sarebbe responsabile WikiLeaks, bensì un’organizzazione di giornalismo mainstream. «Stanno chiaramente cercando di incastrarmi per spionaggio» dice Assange quando attacca la cornetta. Nell’altro, anticipato dall’immagine iniziale, Assange è in una camera d’albergo di Londra, mentre la Corte suprema inglese sta per annunciare il verdetto sulla sua estradizione in Svezia lui si sta «truccando» per scappare – lenti a contatto colorate, capelli e barba rossicci, un ultimo abbraccio alla madre. Prima di salire sulla moto che lo porterà all’ambasciata dell’Ecuador.

In un momento che apre uno squarcio più ampio sulle attività di WikiLeaks, siamo in Egitto dove, durante una conferenza sulle telecomunicazioni, uno dei più stretti collaboratori di Assange, Jacob Applebaum (presente alla proiezione di ieri insieme alla regista), accusa i dirigenti TE Data e Nokia, di essere stati in combutta con Mubarak per soffocare la rivoluzione.

Poitras ha avuto molto accesso ad Assange e alla sua struttura, ma il film non contiene un’intervista con lui. La premessa dietro alle quinte è simile a quella di Citizenfour, ma il soggetto della storia non si rivolge mai al pubblico, non sente mai il dovere di spiegarsi. Il che fa di Risk non tanto un bel film quanto un gesto sacrosanto per riaprire il dibattito pubblico sulla situazione di Assange bloccato da quattro anni (scadono il 19 giugno prossimo) tra quattro mura, senza nemmeno un capo d’imputazione a suo carico.