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#WeNeedToTalk, l’hashtag si ribella al Cairo: «Parliamo della repressione»

#WeNeedToTalk, l’hashtag si ribella al Cairo: «Parliamo della repressione»Una delle foto pubblicate su Twitter con l’hashtag #WeNeedToTalk

Egitto Lo slogan #DobbiamoParlare era stato lanciato dal World Youth Forum, conferenza voluta da al Sisi per i giovani. Ma in poche ore sul web si è trasformato in un coro di dissenso di massa contro il regime e i suoi abusi

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 2 novembre 2017

Lo slogan era stato pensato per celebrare i successi del governo egiziano, ma sono bastate poche ore perché venisse trasformato in una critica aspra e di massa al regime del presidente al Sisi.

#WeNeedToTalk, dobbiamo parlare, è l’hashtag scelto dal World Youth Forum, conferenza che si terrà la prossima settimana a Sharm el Sheikh, una piattaforma sponsorizzata dal governo per discutere di «pace e solidarietà», «armonia e progresso».

È bastato poco perché attivisti, giornalisti, semplici cittadini inondassero Twitter con le loro richieste di «due chiacchiere». Ben precise: sparizioni forzate, reporter agli arresti, il massacro di Rabaa di quattro anni fa, 60mila detenuti politici, la repressione delle proteste nubiane, violazione della libertà di espressione, torture in carcere, assistenza sanitaria carente e corruzione.

E poi domande personali: «Dobbiamo parlare del mio amico Yasine, imprigionato per non aver fatto altro che difendere il diritto di espressione»; «Dobbiamo parlare di Shaimaa el-Sabbagh [nota attivista uccisa dalla polizia in una manifestazione a Alessandria]»; «Dobbiamo parlare di mio padre e di ogni padre che portate via dalla sua famiglia».

C’è chi pubblica foto di manifestanti picchiati dalla polizia e chi chiede conto del fotoreporter Sawkan, del leader di piazza Tahrir Alaa Abdel Fataah, del poeta Ahmed Douma. C’è chi ricorda Giulio Regeni, il giovane italiano scomparso e ucciso al Cairo tra gennaio e febbraio 2016.

Poche ore e l’hashtag è entrato nella top ten egiziana di Twitter. Non sono mancati i sostenitori di al Sisi che hanno usato lo stesso messaggio per enunciare quelli che ritengono successi del regime, dal mega-progetto di New Cairo alla guerra agli islamisti in Sinai. Ma ciò che con più potenza appare dalla pioggia di tweet, in arabo e inglese, è l’impellente necessità di dire qualcosa.

Con le piazze svuotate dalla repressione, la stanchezza e la frustrazione di un popolo che, fatta una rivoluzione, subisce oggi un regime quasi peggiore del precedente, la rete è ancora un modo per esprimere dissenso.

Un dissenso che emerge soprattutto quando è il regime stesso che tenta di mettersi in vetrina. La conferenza internazionale sul mar Rosso, sponsorizzata dallo Stato egiziano e con al Sisi ospite d’onore, vedrà dal 4 al 10 novembre una piccolissima fetta di giovani egiziani dare suggerimenti a politici e importanti personalità del paese.

«Se le tue idee possono cambiare il mondo o far sviluppare un paese, dobbiamo parlare», dice il jingle del video di presentazione. Un messaggio che arriva nelle strade sotto forma di gigantografie che promuovono l’evento: una di queste è apparsa piazza Tahrir, la piazza della rivoluzione del 2011.

Ma fuori dal World Youth Forum la popolazione egiziana si impoverisce, i prigionieri politici aumentano e le sparizioni forzate vengono stimate dalle ong locali in 3-4 al giorno.

«Invece di spendere soldi per una conferenza internazionale fingendo che sia rivolta al dialogo con i giovani – commenta all’Ap Timothy Kaldas, ricercatore al Tahrir Institute for Middle East policy – il governo dovrebbe liberare i giovani prigionieri politici. Quando il governo sarà pronto a parlare con i giovani, non ne mancano di coraggiosi e brillanti».
Ancora più lontano, nella prigione di Al-Aqrab, “Scorpione”, da settembre l’80% dei mille prigionieri è in sciopero della fame. Le famiglie non sono autorizzate a vederli da un anno. E la notizia arriva solo ora.

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