In occasione dell’edizione 2023 del Festival del cinema di Cannes, ripubblichiamo questa intervista a Wim Wenders pubblicata su il manifesto del 22 ottobre 1993 a pagina 13.

«Ogni fotografia, ogni ‘Una volta’ nel tempo è anche l’inizio di una storia… Ogni foto è anche la prima chiave di un film… Per me in ogni caso il fotografare era diventato ‘nel corso del tempo’ sempre più uno scovare ‘tracce di storie’». Piccoli frammenti di esistenze, volti, luoghi, brevi istanti di una lunga narrazione possibile. Un cinema abbandonato, quasi un film di Bogdanovich racchiuso in un unica inquadratura; Isabella Rossellini e Martin Scorsese incontrati per caso nel deserto americano; l’aeroporto di New York, le strade di Tokyo, il deserto australiano. Appunti di viaggio e di personali visioni che Wim Wenders ha raccolto in Una volta, libro per foto e parole, il primo della nuova Socrates edizioni (introduzione di Daniele Del Giudice con un’intervista di Leonetta Bentivoglio, testi dello stesso Wenders, £.58000).

Tante possibili storie allora ma anche tanti modi per fermare un pozzetto di realtà. Per lasciarla ti intatta nella memoria prima che (forse) nell’immaginario sia già diventata un’altra cosa. Come le Polaroid che Rudiger Vogler scattava in Alice nella città non solo «gabbie» per imprigionare il tempo. O se stessi, a differenza dei protagonisti di Fino alla fine del mondo racchiusi per sempre dai loro sogni.

Immagini amate quelle di Wenders, parti di sé eppure raccontate senza caderci dentro. Il mondo può riprodursi ormai all’infinito e forse, come torna a dire il regista tedesco nel suo ultimo film Faraway so close – che in Italia uscirà tra un mese – solo gli angeli possono  ancora vedere qualcosa… Per lui, le foto lo dimostrano, la fatica a capire i limiti della visione è sempre più grande. E forse come al cinema è meglio abbandonarsi ad altro. A una confusione, a un disordine «melò», a immagini abbozzate che lasciano intuire molteplici possibilità.

Lei ha parlato spesso di una forma di violenza nel cinema, che riguarda il suo bloccare l’immagine. Come risolve questo aspetto nella fotografia?

Credo che invece la fotografia ha la tendenza ad aprire l’immagine anche perché lavora su un concetto di durata diverso. Il cinema conserva uno spazio tra le immagini in cui continuare a leggere il senso della storia. La  fotografia sollecita la curiosità, quel volere (potere) immaginare il seguito di quanto si vede. Cosa è accaduto prima o dopo o mentre veniva scattata… E’ questo il genere di fotografie che mi interessano.

Quelle cioè che  contengono una storia.

Non necessariamente. Una fotografia è un piccolo istante capace di raccontarsi da solo, nel quale puoi trovare una complessità o rendere semplicemente un senso fisico. La temperatura o il gusto di quando l’hai scattata.

Una forma di autonomia che per lei è necessaria per costruire un percorso narrativo più ampio.

E’ l’autonomia del momento, di quel momento. Se si decide di fare una fotografia per illustrare delle storie questa perde la sua completezza. In un altro libro Written in thè west le foto erano inserite in un contesto, gli Stati Uniti, diventando elementi di scrittura con cui raccontare il paesaggio. Eppure nessuna aveva bisogno dell’altra. Un po’ come un quadro, una forma isolata che può essere vista da sola.

Tutto ciò rientra nella tradizione della fotografia. Anche se è l’insieme che alla fine mi interessa. Come al cinema dove non ci si può fissare solo su un’inquadratura, perché si rischia di perdere il filo, di tradire la storia. La stessa regola vale per la fotografia. C’è un percorso, non un’immagine isolata che, anzi, è diventata un concetto pericoloso.

A questo proposito qual è nel suo lavoro il ruolo delle parole?

E’ un rapporto che nel corso del tempo è molto cambiato. Quando ho cominciato a fare cinema (e fotografie) le parole mi sembravano superflue. In uno dei miei primi film, Alabama 2000 ci sono solo due frasi, entrambe prive di significato, inutili. Mi bastavano le immagini. E la musica. Poi è arrivato Peter Handke, un incontro determinante nel mio ripensare alla funzione delle parole. Ho cominciato a interessarmi a quanto diceva la gente, a scrivere i dialoghi. Sulla bilancia c’era un nuovo equilibrio dove una parte (le parole) cominciava a pesare di più. Oggi poi la natura delle immagini è talmente cambiata che il loro ruolo non poteva rimanere lo stesso. E l’unico modo per ridimensionarne il potere era proprio lavorare sulla parola.

Nel suo ultimo film, «Faraway so close» c’è dopo il futuro di «Fino alla fine del mondo» una visualità più «classica». E’ un desiderio di «purezza» nelle immagini?

Credo che il mio film più «classico» sia Il cielo sopra Berlino che era tutto nella tradizione del cinema francese fantastico. E poetico, come suggerisce la fotografia di Henry Alekan. In Faraway so close ho l’impressione di avere fatto un lavoro sul linguaggio più estremizzato, e dunque più moderno. Ho usato la steadycam e poche inquadrature fisse. C’è un movimento nel film che non trovo affatto «classico». Forse però è solo una mia impressione. Dopo aver passato tante ore al tavolo di montaggio un film ti entra nella pelle, diventa parte di te, lo conosci tanto intimamente che è difficile osservarlo con distacco.

E per quanto riguarda la «purezza»? In «Faraway so close» i protagonisti ex angeli distruggono film porno. Lei torna alla fotografia che nasce prima del cinema…

Non sono tanto convinto che la fotografia in questo momento sia qualcosa di più «vecchio» del cinema. Anzi gli sopravvive meglio. Hanno una storia parallela, e quella della fotografia non è stata messa in discussione dai  sistemi digitali o dalle nuove tecnologie. Credo che entrambi, cinema e fotografia, devono fare i conti con la difficoltà dell’arte di raccontare per immagini. Più che di «purificazione» comunque parlerei di una lotta contro le mie stesse immagini che da anni trovo sempre troppo «pulite». Quando guardo una foto sono contento se c’è qualcosa di «sciatto», che non è stato irrigidito dalle esigenze del montaggio o dell’inquadratura. Nei film cerco di fare lo stesso, inseguo questo disordine.

Se l’immagine ha cambiato di senso è perché è diverso anche lo sguardo. Al tempo stesso la memoria, la citazione cinefila hanno un altro ruolo.

Certo il contesto è fondamentale. Oggi ad esempio i film di Ozu o La strada di Fellini così puri e semplici vengono portati dalla tv in tutto il mondo diventando solo frammenti. Se ripenso a un film come Nel corso del tempo credo che non sarei più in grado di rifarlo. L’immaginario a cui si riferiva è andato perduto come la capacità di essere naif. Più che di cinefilia parlerei di nostalgia. La nostalgia per un modo di fare cinema di fronte a quello attuale. Che non racconta niente, che è solo una forma di narcisismo.

Nell’introduzione a «Written in the west» lei aveva definito l’occidente un posto dove sta morendo qualcosa. Oggi cosa pensa?

Mi riferivo all’occidente americano. Avevo noleggiato un automobile per arrivare da New York a Los Angeles. E attraversando il paese scoprivo che quel paesaggio in cui per me si racchiudeva una mitologia aveva perduto ogni interesse. Mi sono chiesto ‘sono io ad essere cambiato o la realtà esterna’? Scattavo le foto ma non potevo non pensare che ormai quei luoghi erano stati così sfruttati, riprodotti all’infinito, da aver perduto ogni senso.

E l’occidente inteso come Europa?

Qui non ci sono solo paesaggi ma anche tradizioni che stanno scomparendo ovunque. Il mondo sta diventando sempre più uguale, e tutto ciò che rappresenta una forma di diversità viene soffocata.

Lei è tornato in Germania, da diversi anni vive a Berlino dove ha girato gli ultimi film. Come mai ha recuperato in modo così forte i suoi legami con la cultura tedesca?

In questo momento posso soltanto dire di essere profondamente depresso. Il mio paese è pieno di confusione e di violenza. L’unificazione è stata un grosso abbaglio, quasi un tradimento, soprattutto per chi viveva a est che  oggi è ancora più povero. Ma anche per me diventa ogni giorno più difficile vivere in Germania, accettare la cecità e i soprusi che arrivano da ogni parte.