Già da qualche anno, dal tempo della Settimana della Critica di Venezia di qualche anno fa, Anna Eriksson cantante di successo in Finlandia, poi regista, montatrice imperversa in Europa, ne solca i festival incrinandone l’immaginario con il suo cinema carnale, conturbante, politico. Nel 2018 era stato M, con una Marilyn Monroe sfatta e attraente, a forzare, a violentare lo sguardo, l’imene oculare degli spettatori del festival di Venezia.
Con W, presente nel fuori concorso di Locarno, Anna Eriksson accentua ancora di più il grado di disperazione del suo cinema, quel nichilismo intriso di una filigrana oscura, il nero di un baratro entro cui cadono e si perdono i significati, i concetti, il filo logico di una storia ancora più connotata che in passato da inferenze politiche. Film post-pasoliniano, film di eccessi; ma film dall’enorme fascino, film suicidario, tutto affidato ai turbamenti dei corpi aperti, slabbrati, alla specifica fisiognomica dei volti, sempre segnati da spasmi, mutrie, smorfie che sembrano incrinare l’impassibilità e uniformità della biacca che copre le facce e rimanda così a Roy Anderson, a un grottesco tutto raffermo nella natura marionettistica, nei movimenti incagliati, meccanici dei personaggi.

NON SI TRATTA neppure di fantasmi, i fantasmi di Marx direbbe Derrida, ectoplasmi sulla cui epidermide inconsistente si gioca la partita della Storia; ma se mai di cadaveri, di pallido carcame esposto alla decomposizione, che incarna il fallimento, l’oscena nauseante purulenza della politica. Il corpo è innanzitutto quello di Europa, donna cronenberghiana, imbastita in stretture di pelle e di metallo, dotata di sensualità laida, che all’improvviso piscia per terra da una fica ancora, in qualche modo, desiderabile mentre la minzione dischiude le cateratte, la carne pendula delle grandi labbra, e le bagna, le espone slabbrate; e smania, malata, rantola, chiede pozioni di sangue per continuare a esistere. Il suo cicisbeo cinese gliene priva il più delle volte mentre la insulta e la ripudia, gliene dà di rado insieme a coiti, fino a che non decide di evirarsi.

MA LA METAFORA politica non offusca la lettura letterale, lo sciorinare delle figure balzane, la loro carne macilenta, cadaverica, il loro rapportarvisi in un ecosistema di pura sofferenza; così come la scansione dello spazio (una sorta di ospedale delle torture) misurato da cacofonie, motivi di canzoni languenti, morenti in chissà quale anfratto vuoto e disadorno dell’ospedale; luoghi il più delle volte artati a dovere, costruiti per impressionare e disorientare come in un Cremaster di Matthew Barney. Ecco, questa disposizione delle figure mostruose o eteroclite nel rimbombo dello spazio, proprio di certa videoarte, mi pare il referente principale per Eriksson: ma non solo Matthew Barney; c’è forse il Lynch più cupo, come spogliato però dalla scrittura automatica. E c’è da chiedersi cosa resti di Lynch oltre l’automatismo onirico: forse resta il cadavere di un sogno (col suo portato allegorico: il sogno europeo in necrosi); la frontalità, la concretezza del corpo (ancora Pasolini); lo scuro nulla in decomposizione – alla fine della storia, alla fine della vicenda di ogni corpo – privo di ogni mistero.