Europa

Vucic alla prova dell’opposizione unita

Le strade di Belgrado. Non sono le presidenziali ma Vucic, «presidente assoluto», ha voluto personalizzare la campagna elettorale foto GettyLe strade di Belgrado. Non sono le presidenziali ma Vucic, «presidente assoluto», ha voluto personalizzare la campagna elettorale – Getty Images

Elezioni in Serbia Oggi il quarto voto anticipato per le politiche. Si rinnovano il parlamento, 53 municipalità e 12 comuni, Belgrado compresa. Pesano, nell’eco della guerra ucraina, l’adesione all’Ue e il ricatto sul Kosovo «da riconoscere». Ma i nodi sono interni: corruzione, media sotto tiro, nuovo movimento contro la violenza

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 17 dicembre 2023

Persino i lampioni opachi e le strade del centro, solcate da esili corsi d’acqua e ingombre solo del rumore della pioggia autunnale, e i fari che illuminano l’asfalto lucido, sembrano stanchi di questa ennesima chiamata: non si direbbe, ma Belgrado, e la Serbia tutta, si preparano a nuove, ennesime elezioni politiche, le quarte in pochi anni. E dire che stavolta c’è una novità rilevante: un grande cartello elettorale delle opposizioni, moderate, liberali, o di sinistra, che sfida il decennale potere del partito del presidente della Repubblica, Aleksandar Vucic, mentre le opposizioni della destra più nazionalista vanno in ordine sparso; e, accanto, un movimento d’opinione, chiamato «ProGlas», che fa una campagna civica e culturale invitando i cittadini a recarsi alle urne (alle ultime elezioni, l’anno scorso, l’affluenza è stata al 58%). In una delle nazioni al mondo che si spopolano a ritmo più elevato, impoverita dalla corruzione dilagante e depressa ulteriormente dalla corsa inarrestabile dell’inflazione, non è poco.

AD ACCENDERE I RIFLETTORI ci ha pensato curiosamente un presidente straniero, quello ucraino, qui non molto amato: trovando uno spazio nella sua fitta agenda, qualche settimana fa Volodymyr Zelensky ha infatti dichiarato di essere in possesso di informazioni sensibili che indicano nei Balcani il prossimo probabile focolaio di conflitti in Europa, e, dal suo punto di vista, il prossimo impedimento a concentrare tutta l’attenzione e le risorse (dell’Occidente) nel finanziamento della guerra in Ucraina. Questa curiosa dichiarazione si accoda all’antico adagio – e profezia che si autoavvera ciclicamente – dei «Balcani polveriera d’Europa»: da sempre evocato come una entità astratta e generica, quando usato per esprimere preoccupazione questo sostantivo geografico («Balcani») vuole designare in realtà il fastidioso paese cui i media d’Occidente non hanno voglia di riconoscere, di solito, nemmeno il nome: la Serbia. Al più, si dice e si scrive «I serbi», come un epiteto razzista e dispregiativo, ciò che fu in Europa appannaggio esclusivo, per qualche decennio, dei «Tedeschi», a partire dagli anni trenta del Novecento.

È DA QUESTO PAESE che ci si attende guai, e il presidente Vucic, forse condividendo i sospetti di Zelensky e dei suoi informatori, ha dichiarato più volte nei mesi scorsi che una nuova guerra con il Kosovo non è una possibilità presa in considerazione da Belgrado. Forse Vucic presagisce che l’Ucraina vorrebbe mettere la freccia a scapito dei candidati balcanici per l’ingresso in Europa, traguardo vagheggiato un po’ da tutti in Serbia – dal governo alle opposizioni – ma soggetto al (ricattatorio) riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo: una promessa sub condicione ribadita anche da Giorgia Meloni nella sua recente visita a Belgrado.

SÌ, CON IL KOSOVO ci sono state nuove tensioni: sia per quanto riguarda le relazioni diplomatiche generali, con un paese di cui Belgrado non riconosce l’indipendenza autoproclamata unilateralmente quindici anni fa, sia per la situazione dei 100mila serbi che vivono in Kosovo e che hanno subìto le conseguenze della gestione maldestra di alcune questioni specifiche nonché episodi di vera e propria discriminazione da parte del governo di Albin Kurti. Vucic vuole probabilmente far scivolare la questione kosovara in fondo alla pila dei dossier sulla sua scrivania, e le elezioni lo aiuteranno anche in questo. Tuttavia, si direbbe che indire la tornata del 17 dicembre sia la risposta del presidente serbo alle vicende politiche interne. Il suo sistema di potere, basato su una ampia rete clientelare e il controllo spregiudicato dei mezzi di informazione, corroborato anche da casi di minacce esplicite agli oppositori – come nel caso di Djordje Miketic, cui sono stati inviati video intimi di se stesso, precedentemente rubati dal suo computer, fatto preannunciato cripticamente da Vucic a mezzo stampa -, si è visto per la prima volta messo in discussione da una ampia partecipazione civile, non solo belgradese.

A PARTIRE DA manifestazioni di piazza suscitate dalla recrudescenza di atti di violenza armata nel paese, culminati a maggio nella sparatoria in una scuola di Belgrado nella quale hanno perso la vita nove persone, si è formato infatti quello che è diventato prima un movimento civico e d’opinione, e adesso, sotto l’insegna «Serbia contro la violenza», un cartello elettorale molto eterogeneo. Accreditato nei sondaggi di oltre il 20% dei voti, «Serbia contro la violenza» (Srbija Protiv Nasilja, SPN) contiene tra gli altri il Partito Democratico (DS), il Movimento popolare serbo (NPS) e l’agguerrito Fronte dei Verdi di sinistra (ZLF, vedi l’intervista sotto), oltre al movimento personalistico di Zdravko Ponos che era arrivato secondo alle elezioni per il seggio di Presidente della Repubblica. Il programma di SPN è vago, tenuto insieme da slogan generici, e difficilmente riuscirà a prevalere sulla macchina ben oliata di Vucic, il quale è intervenuto nella campagna elettorale e l’ha personalizzata, anche se il suo scranno non è in gioco (le presidenziali sono distinte dalle politiche, nelle quali si eleggono i 250 componenti dell’assemblea parlamentare che poi daranno mandato alla formazione di un governo), infrangendo la «costituzione materiale» e le regole istituzionali serbe, e proponendosi, ormai da anni, come il «presidente assoluto», che scavalca abitualmente la debole premier, Ana Brnabic (sua fedelissima).

SI VOTA ANCHE per il sindaco, in diverse città, compresa Belgrado: qui il presidente è meno popolare che altrove, e il candidato delle opposizioni non nasconde ambizioni di vittoria. Dal 2012, soltanto una volta i parlamentari hanno esercitato il loro mandato fino a conclusione della legislatura. A furia di promettere a studenti e pensionati mance che si contano nell’equivalente di centinaia o anche decine di euro, è probabile che Vucic con il suo Partito progressista serbo – che di progressista non ha niente – vincerà anche stavolta (nei sondaggi è al 44%), e la sua flotta corazzata potrà così tornare a muoversi tranquilla tra le anse del Danubio e della Sava. Alcuni anni fa, proprio sul lungofiume che dal centro di Belgrado porta verso i caliginosi sobborghi di Zemun si vide passare un inusitato, enorme papero giallo. Era una delle prime iniziative degli attivisti che poi avrebbero fondato ZLF. Chissà che quello scherzo non si riveli più persistente del previsto: una macchia di colore che risale lentamente il tappeto fangoso del Danubio.

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