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Voto di scambio su Gerusalemme, Trump premia l’Honduras di Hernández

Voto di scambio su Gerusalemme, Trump premia l’Honduras di HernándezContinua a Tegucigalpa la protesta contro i brogli elettorali in Honduras – LaPresse

Ricompensa immediata Il Dipartimento di stato Usa riconosce la "vittoria" elettorale contestata dall'opposizione e smontata dalla missione degli osservatori internazionali

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 28 dicembre 2017

Dopo aver votato contro la risoluzione con cui l’Assemblea generale dell’Onu ha bocciato la decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, il governo honduregno ha subito ottenuto l’ambita ricompensa: il riconoscimento ufficiale della “vittoria” di Juan Orlando Hernández alle elezioni presidenziali del 26 novembre scorso.

È stata Heather Nauert, portavoce del Dipartimento di stato Usa, a esprimere le sue felicitazioni al presidente in un comunicato che non ha potuto evitare il riferimento – del tutto irrilevante, a questo punto – alle «irregolarità individuate» dagli osservatori dell’Organizzazione degli stati americani e dell’Unione europea, insieme all’appello «agli honduregni a evitare la violenza» e all’invito, che suona in realtà più come una beffa, a un «solido dialogo nazionale», lo stesso che il presidente Hernández, da sempre fedelissimo alleato degli Stati Uniti, ha magnanimamente proposto all’opposizione, al fine di superare le divisioni e raggiungere un «grande accordo» nazionale.

Il riconoscimento Usa era stato in realtà preceduto – in una triangolazione davvero perfetta – proprio da quello del governo israeliano, come pure dalle felicitazioni di altri presidenti dalle ben note credenziali democratiche: il colombiano Juan Manuel Santos, il guatemalteco Jimmy Morales (lo stesso che, accreditandosi come uno dei più fedeli alleati di Trump, ha annunciato lo spostamento della sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme) e il messicano Enrique Peña Nieto. A questi si sono poi accodate le due maggiori potenze latinoamericane, ormai allineate in automatico ai voleri di Washington: l’Argentina di Mauricio Macri e il Brasile di Michel Temer.

Finirà per allinearsi anche il segretario generale dell’Oea Luis Almagro, che, giusto per non perdere la faccia dopo le conclusioni del rapporto degli osservatori, ha chiesto al governo honduregno di accettare l’invio di un proprio delegato speciale con l’obiettivo di «conoscere la situazione delle proteste» – durante le quali sono state già assassinate oltre 30 persone – e «la reazione da parte dello Stato».

Se, in questo quadro, i giochi sembrano fatti – perché di sicuro non sortirà alcun effetto il ricorso di nullità delle elezioni presentato dall’opposizione al Tribunale supremo elettorale – al popolo honduregno, determinato a continuare le proteste finché non venga rispettata la volontà espressa nelle urne, non rimane che contare sulle proprie forze.

Ed è così che Salvador Nasralla – il quale, dopo aver dichiarato conclusa la sua esperienza con l’Alleanza di opposizione alla dittatura che lo aveva scelto come candidato, si è riunito nuovamente con il coordinatore dell’Alleanza, Manuel Zelaya, per delineare una nuova strategia di mobilitazione – ha annunciato la creazione del Fronte nazionale democratico anticorruzione, al fine di convocare tutti i settori della società – «i settori sani delle forze armate, gli imprenditori onesti, i giovani, i lavoratori, i sindacati» – per «un vero dialogo che includa tutti».

«Andremo avanti con la nostra lotta – ha garantito Nasralla – finché coloro che decidono negli Stati uniti non si renderanno conto che Hernández non potrà governare con il 90% della gente contro». E neppure ha scartato l’arma della disobbedienza civile, in tutte le sue forme: «Le persone non pagheranno le tasse, i pedaggi, i bolli auto, i servizi pubblici. Se vogliono vivere in pace – ha concluso – che accettino la loro monumentale sconfitta».

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