Volti e corpi dall’India fra mito e progresso
Magazzini delle Idee, Trieste Fino al 7 aprile 2024, una mostra che ripercorre gli ultimi settant’anni di fotografia indiana attraverso oltre 500 opere fotografiche, video e installazioni
Magazzini delle Idee, Trieste Fino al 7 aprile 2024, una mostra che ripercorre gli ultimi settant’anni di fotografia indiana attraverso oltre 500 opere fotografiche, video e installazioni
«Grazie a noi, l’Indipendenza è venuta (e se n’è andata), le elezioni vengono e passano, ma non c’è stato alcun rimescolamento delle carte. Al contrario, il vecchio ordine è stato consacrato, lo squarcio consolidato», scrive Arundhati Roy in La fine delle illusioni. L’India contemporanea è erede in parte del mix letterario in cui La mia magica India di Anita Nair incontra La tigre bianca di Aravind Adiga, tra mitologia, progresso e quotidianità – rabbia e sorrisi – che si consumano sui marciapiedi, nel tran tran dei passeggeri di una stazione ferroviaria, nelle startup dell’industria informatica delle megalopoli, ma anche nella quiete apparente della foresta, nei villaggi remoti, magari davanti alle immagini danzanti proiettate sullo schermo della tenda di un cinema itinerante.
Volti e corpi: la massa di individui di tutte le classi sociali, genere, età e provenienza costituiscono anche l’anima del racconto (in un certo senso epico) della mostra «India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri», curata da Filippo Maggia e prodotta/organizzata da ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia, al Magazzino delle Idee di Trieste (fino al 7 aprile 2024) che ripercorre gli ultimi settant’anni di fotografia indiana attraverso oltre 500 opere fotografiche, video e installazioni.
Un’India solo in parte immaginifica (lontana comunque da suggestioni alla Salgari o Pierre Loti, traducibili visivamente nelle non meno suggestive fotografie di Samuel Bourne o Ram Singh II), perfettamente calzante con l’aritmia dei nostri tempi è quella che lo spettatore intercetta nelle immagini in bianco e nero e a colori degli autori e delle autrici solo in parte noti (ed esposti) in Italia, ma di consolidata fama internazionale: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose e Uzma Mohsin. «Questioni di genere, identità e religione si sovrappongono a complicate trame sociali, e nuovi gravi problemi derivano dalla repentina e inarrestabile evoluzione economica e industriale in atto dalla fine dello scorso millennio, processo che inevitabilmente comporta lo spopolamento delle campagne e delle zone rurali, dalle pendici dell’Himalaya sino all’estremo sud del Kerala e del Tamil Nadu, per sovraffollare le metropoli come Mumbai, Nuova Delhi o Kolkata, con conseguenti danni all’ambiente che alle volte implicano lo spostamento coercitivo di persone da una regione all’altra», scrive Filippo Maggia nel saggio sul «subcontinente irrequieto» pubblicato nel catalogo Electa.
Questi sono proprio i temi affrontati da fotografe e fotografi indiani con diversi approcci formali e un valore aggiunto considerevole dato dalle interviste video raccolte dal curatore in India la scorsa primavera: una conoscenza diretta, senza filtro, preziosa per la comprensione non solo dell’opera o del progetto in sé, ma del contesto specifico, storico e sociale in cui è stato realizzato.
«C’è un buco nella bandiera, e bisogna rammendarlo. È triste dirlo, ma finché avremo fiducia… non avremo speranza. Per sperare, dobbiamo infrangere la fiducia», scrive ancora Arundhati Roy. L’eco delle parole della scrittrice e attivista sembrano prendere forma nell’opera multimediale The Songkeepers (2018) di Uzma Mohsin, manifesto della protesta civile dedicato a coloro che si espongono in prima persona per manifestare il proprio dissenso. Le donne indiane sono le prime a scendere in strada con il pugno alzato per difendere i diritti più basilari, magari tenendosi per mano e creando lunghissime catene umane come è successo in Kerala nel 2019, quando protestarono contro il divieto di entrare in età fertile (quindi a rischio impurità mestruale) per pregare nel tempio indù di Sabarimala.
Attivista e cronista del movimento femminista indiano, Sheba Chhachhi (1958) inizia a fotografare tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ’80. «Un momento prima scattavo foto, il successivo gridavo slogan», afferma l’autrice della serie Seven Lives and Dreams. Alla coscienza ecologica e politica si riferiscono, invece, i lavori di Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka e Soumya Sankar Bose, mentre Serena Chopra dopo aver fotografato a lungo i popoli del Buthan sposta la sua attenzione sulla comunità di profughi tibetani di Majnu Ka Tilla, fondata a Delhi intorno al 1950. «Avevo incontrato il Dalai Lama, il quale mi aveva detto: «Sei una fotografa. Perché non fai qualcosa per il Tibet, per aiutare i tibetani? Quello ha rappresentato l’inizio del mio impegno.» Un amico tibetano la accompagna tra la gente del posto, facendo da interprete. «Avevo tre diari sui quali hanno scritto più di 90 tibetani. Volevo diventare la loro voce. Le fotografie sarebbero state vuote, prive di significato senza le loro storie. Non volevo scrivere come se fosse una rivista. Volevo che loro esprimessero se stessi parlando direttamente al pubblico». «Che cosa hai passato? Quali sono i tuoi sogni?»
È un diario per immagini che nasce da una reciproca stima anche la documentazione ongoing, iniziata nel 2003 da Anita Khemka sulla vita di Laxmi Narayan Tripathi (conosciuta come Laxmi), attivista per i diritti transgender/hijra, attrice di Bollywood e ballerina di Bharatanatyam. «A volte chiacchieriamo e registriamo. Altre semplicemente ci incontriamo e registro ciò che dice, per il piacere di farlo, ma senza che lei lo sappia, perché se glielo dico la conversazione prende un’altra piega. Perché lei è anche un’attrice, quando la fotografi, recita. Basta guardare una qualsiasi foto. È una diva. Sa sempre quello che fa. È sempre lei che mi concede lo scatto. Le piace farmi credere che sia io a cogliere il momento, ma non è così».
Un lavoro che testimonia dall’interno la realtà degli «hijra», sebbene in un contesto diverso da quello raccontato anni prima da Dayanita Singh dopo aver conosciuto e frequentato Mona Ahmed (il libro Myself Mona Ahmed è del 2001). «Ci siamo conosciute sul set di Between The Lines – India’s Third Gender, un documentario realizzato da un regista tedesco. In realtà, Laxmi ed io allora non ci sopportavamo. Lei non mi piaceva per nulla e io non piacevo a lei. Poi però mi sono resa conto che era fondamentale per me ricontrarla in un terreno neutro in cui il mio ruolo non fosse quello di fotografa, giusto per rivederla. Ho deciso così di presentarmi a casa sua senza preavviso, e lì abbiamo imparato a conoscerci trascorrendo del tempo insieme. Lei vive a Bombay, mentre io all’epoca stavo a Delhi. Mi ha raccontato la sua vita e io ho parlato di me. Sono stata con lei due settimane. Ho continuato a fotografarla, e vent’anni dopo ancora la fotografo. L’aspetto interessante di Laxmi è che anche quando non era nessuno era molto consapevole di se stessa, era molto strutturata, molto preparata. Capiva il linguaggio della fotografia e il rapporto tra il fotografo e il soggetto. Sapeva e sa cosa vuole trasmettere, cosa vuole dire attraverso un’immagine».
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