Da qualche mese Kiev è tornata a vivere nella “normalità”, anche se vivere qui richiede comunque qualche precauzione.
Per trovare un appartamento per esempio, non basta solamente un’agenzia, ma se si ha la possibilità, sarebbe meglio rivolgersi a un esperto di sicurezza, un militare che visita la casa, bussa sui muri, osserva la piantina, si affaccia al balcone e fa ogni tipo d’ispezione. In generale non è raccomandabile vivere nei piani alti, in palazzi senza rifugio o in zona rossa: i quartieri dei ministeri, delle centrali elettriche o delle basi militari. Insomma, ci si ritrova a discutere con gli abitanti del quartiere riguardo alla presenza o meno di un rifugio sotterraneo. Vista fuori dal contesto la scena potrebbe risultare alquanto surreale: «Salve scusi, dove sono il panificio, il supermercato e il rifugio antiaereo?».

KIEV è completamente affacciata al mondo occidentale, lo accoglie nei modelli commerciali e nello stile di vita capitalista. È una città rampante, che non ha niente da invidiare a una metropoli europea o statunitense, ma allo stesso tempo si nota l’eco del socialismo nella struttura urbanistica, nella prevalenza di spazi pubblici. Qui i negozi non si affacciano solo sulle strade, ma si trovano anche nei cortili dei palazzi, che sono aperti al passaggio pedonale. Vivendo a Kiev dopo un po’ s’iniziano a trovare scorciatoie tra le palazzine, dove ci s’imbatte in negozietti di ogni tipo, numerosi sono anche i locali notturni “imboscati”. Un neon, una freccia disegnata sul muro, una lampadina colorata, fanno capire che dietro la porta di uno scantinato in realtà si nasconde un bar o una discoteca, dove si balla e si beve fino al coprifuoco, a mezzanotte, e se scatta un allarme aereo non serve correre al riparo, perché già ci si trova sottoterra.

GLI AVVENTORI sono giovani in piena età di leva: i maschi meno invidiabili al mondo. La domanda più stupida che si può fare loro è: «Non hai paura che un giorno ti mettano un fucile in mano e ti mandino al fronte?». Ognuno risponderebbe che invece non vede l’ora, perché ama l’Ucraina e vuole fare qualcosa per il proprio paese, ma tra le righe la vera risposta (e sarebbe assurdo il contrario) è che hanno una paura fottuta. Qualcuno dopo qualche birra confessa di volersi tagliare un dito, un altro ha paura che la polizia lo becchi a fumarsi una canna perché salirebbe di graduatoria. Insomma la guerra serve anche a questo, fate i bravi sennò vi mando al fronte.

FINO A QUALCHE GIORNO fa a Kiev ci si sentiva al sicuro. A parte gli attacchi del 9 marzo, che sembravano puntare per lo più alla periferia, non è più capitato di dover scendere al rifugio. Le sirene hanno continuato a suonare una volta al giorno, ma seguendo i vari canali Telegram che specificano la vera entità del rischio, si capisce che l’allerta non riguarda la capitale, o che si tratta del decollo di un mig dalla Russia o dalla Bielorussia, talmente veloci che nessun allarme avrebbe un anticipo sufficiente, quindi tanto vale restare dove si è. La sirena suona e la vita continua, al bar, nelle strade, nelle case.

POI IL DRONE sul Cremlino e gli allarmi notturni sono ricominciati, questa volta accompagnati da esplosioni vicine al centro, e ci si mettono anche le meteoriti e i droni ucraini impazziti abbattuti dall’esercito sulla casa del presidente, che tra l’altro quel giorno si trovava nei Paesi bassi.
La vita tranquilla della capitale inizia a essere intaccata da questi eventi, e gli abitanti, che in segno di resilienza non si curavano degli allarmi, iniziano a preoccuparsene.
Gli internazionali sono i più prudenti, portano i viveri nei rifugi e chi non ha uno shelter nel proprio palazzo può usare la metro o quelli delle palazzine più vicine, mentre il lussurioso albergo di fronte respinge i non clienti che trovandosi lì durante gli allarmi cercano un riparo. Pubblico e privato, socialismo e capitalismo che si scontrano soprattutto nelle emergenze, nella mercificazione dei diritti basici, come un rifugio durante un bombardamento.