Virginia Woolf, un luogo di incontro con la propria voce
Scrittrici inglesi Nel secondo volume, datato 1920-24, dei «Diari», che Bompiani sta traducendo integralmente, Virginia Woolf prende appunti per una svolta nella scrittura: «non si deve vedere un solo mattone...»
Scrittrici inglesi Nel secondo volume, datato 1920-24, dei «Diari», che Bompiani sta traducendo integralmente, Virginia Woolf prende appunti per una svolta nella scrittura: «non si deve vedere un solo mattone...»
Il fascino di un diario è dovuto solo in apparenza alla segretezza che sentiamo di violare nel leggerlo. Poggia piuttosto sulla forza dell’intenzione, sulla disciplina che questo genere di scrittura richiede. Se da un romanzo o racconto ci si attende una trama, un disegno di qualche tipo, da un diario si può pretendere solo costanza. Tutto il resto è gratuito perché occasionale, determinato dai capricci di un determinato giorno, dal caso e dagli umori di chi annota, ma proprio per questo privo di infingimenti, più simile alla vita, sempre che la somiglianza con la vita rappresenti un valore. E sempre che il diario sia un vero diario.
«Quanto m’interesserebbe se questo diario dovesse mai diventare un diario vero» appuntava Virginia Woolf il 19 febbraio 1923, dando dunque per scontato che il suo non lo fosse. Una simile osservazione implica un’idea precisa di cosa sia un diario e infatti, subito dopo, in quella stessa pagina, la scrittrice aggiunge una sua definizione: «un posto dove poter vedere i cambiamenti, seguire l’evolversi degli umori.» Dice anche che un posto del genere impone che si parli della propria anima ovvero di qualcosa che lei aveva «messo al bando» nel cominciare a tenere il suo. Quanto e come sia stata fedele all’intento è altra questione.
I diari di Virginia Woolf sono un’opera immensa, complessa e meravigliosamente contraddittoria, coprono il quarto di secolo che va dal gennaio 1915 al marzo 1941 ovvero dal trentatreesimo compleanno ai giorni che precedono il suicido. In Inghilterra videro le stampe negli anni Settanta del secolo scorso, in cinque corposi volumi. Li aveva preceduti, nel 1953, Diario di una scrittrice, una selezione curata dal marito che costituiva all’incirca un quinto del totale e privilegiava le pagine di argomento più letterario, sacrificando il fluire dei giorni, la vita quotidiana, il lato su cui Woolf si concentrava maggiormente. La versione ridotta – diciamo pure il falso diario – è stata a lungo la sola accessibile al lettore italiano. Per qualche misteriosa ragione, a parte un tentativo di Bianca Tarozzi che ha portato alla pubblicazione di un solo volume per Rizzoli, i diari integrali sono da noi ancora inediti. Un’assurda lacuna cui sta finalmente ponendo rimedio Bompiani.
Le duemila e più pagine di annotazioni avranno la voce di Giovanna Granato e il commento di Mario Fortunato, che alla scrittrice inglese si è molto dedicato, traducendo Orlando e tutti i racconti. Lo scorso anno è apparso il primo volume e ora esce il secondo (pp. 512, € 35,00), che documenta una fase di svolta, gli anni compresi tra il gennaio 1920 e il dicembre 1924, quelli in cui, come osserva Fortunato nell’introduzione, «Virginia Woolf diventa sé stessa.» Che il passaggio a nord-ovest vada individuato nella Stanza di Jacob è ormai un fatto acquisito.
C’erano stati segni premonitori, racconti come Kew Gardens e La macchia sul muro che avevano preparato il terreno, ma è con questo romanzo che la scrittrice scopre chi è davvero e prende la direzione che la porterà a La signora Dalloway e Al faro.
Il 26 gennaio 1920 Woolf confida al diario di essere molto più felice ora che ha trentotto anni – li ha compiuti il giorno prima – di quando ne aveva dieci di meno e più «felice oggi di ieri, visto che nel pomeriggio sono approdata a una specie di idea per una nuova forma da dare al nuovo romanzo.» L’idea consiste nel metodo di scrittura, completamente diverso da quello usato finora: «niente impalcature; non si deve vedere un solo mattone; tutto crepuscolare, ma il cuore, la passione, il senso dell’umorismo devono sfolgorare come fuoco nella nebbia.» Comincerà a lavorarci tre mesi dopo, in aprile, trattenuta dalle profusione di critiche cui pensa di essere destinata, perché, osserva, «scrivere bene» indispettisce.
Il diario non ci rivela molto altro sul metodo. Da questo momento, quando parla della Stanza Jacob è soltanto per registrare se scrive o non scrive, se la stesura si blocca o quando conta di finirlo. Un anno dopo, l’8 aprile, leggiamo: «Undici meno 10 di mattina. E io dovrei scrivere Jacob’s Room; – non ci riesco & invece scriverò come mai non ci riesco – essendo questo diario un vecchio confidente bonario dalla faccia impassibile. Be’, ti dirò, come scrittrice sono una frana; sono fuori moda; vecchia; non combinerò niente di meglio; sono una zucca vuota; la primavera impazza».
La nota è significativa non per le parole di dubbio e sconforto, o per l’aggiornamento sullo stato dell’arte, bensì per l’accenno alla stagione che incalza. La registrazione del tempo atmosferico è un tratto tipico di tanti diari, ma in Woolf rappresenta qualcosa di più. Il succedersi di giornate più o meno fredde, più o meno piovose, più o meno buie o luminose, e l’attenzione al paesaggio e al mondo circostante in genere servono a distoglierla dalle «cronache dall’interno» ovvero dall’anima. Rappresentano inoltre un esercizio: «Mi pare di poter rintracciare durante l’anno passato un certo momento di agilità che attribuisco alla mezz’ora dopo il té – la mezz’ora solitamente dedicata al diario – in cui scrivo improvvisando.» È insomma il momento in cui sperimenta e si abbandona, il luogo in cui la sua scrittura diventa moderna, postimpressionista, sensibile alla luce, anche perché «come al solito, raccontare mi annoia».
Lo sguardo va all’erba irruvidita dal ghiaccio, ai ramoscelli più alti degli alberi che sembrano intinti nel fuoco, alla luce del sole, a un falco che spicca il volo. Le metafore con cui fotografa le persone sono spesso di tenore simile. L’amica e rivale Katherine Mansfield puzza come uno zibetto. Ottoline Morrell è più «affusolata & oscillante di un pioppo nero.» E poi i fantasmi. Dopo aver finito di leggere La stanza di Jacob, il marito conclude che è un romanzo di fantasmi. La scrittrice riporta il commento dicendosi nel complesso contenta e indifferente a come verrà accolto dal pubblico: «Nella mia testa non c’è dubbio che ho scoperto come cominciare (a 40 anni) a dire qualcosa con la mia voce».
Fantasmi, assenze e dissolvenze sono peraltro motivi costanti. Già presenti nella Crociera, li ritroveremo in Al faro. Un segno di quanto la morte del fratello, sopraggiunta nel 1906 per tifo, l’ultimo di una lunga serie di lutti, abbia sconquassato il suo precario equilibrio psichico. Ancora nel 1929, il giorno di Santo Stefano scrive: «L’ombra di Thoby indugia… spettro stravagante.» Ma non solo. Per più versi la stessa anima di Virginia Woolf assume spesso, almeno nei diari, il carattere del fantasma. Una presenza che appare o traspare a sprazzi, con fiammate improvvise o ambigui barlumi, nello sciupio del tempo che scorre, nella trama dei giorni e delle stagioni, delle minuzie quotidiane, nella pagina sempre luminescente e inquieta come acqua, l’elemento in cui la scrittrice porrà fine alla sua esistenza. Usava il diario «per ciò che lei chiamava guardare la vita,» sostiene un suo biografo. Il fantasma era appunto quello sguardo, che arriva come un riflesso, come luce, scintillio di parole sulle cose su cui si posa, e che fa di queste pagine il grande romanzo dove Woolf trova la sua voce.
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