Luglio 2024, Benyamin Netanyahu al Congresso Usa Ap/Julia Nikhinson
Luglio 2024, Benyamin Netanyahu al Congresso Usa – Ap/Julia Nikhinson
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Le coordinate coloniali del genocidio palestinese

Passato e presente Un secolo fa Sykes-Picot e la Dichiarazione Balfour disegnavano il «Medio Oriente» europeo. Permane la negazione dei diritti indigeni: direttamente nel caso della Palestina, indirettamente con autocrati sostenuti da potenze esterne che premiano la «stabilità»
Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 25 agosto 2024

Con il continuo sostegno delle democrazie occidentali al genocidio che Israele sta compiendo a Gaza, insieme alle persistenti violenze quotidiane in Cisgiordania, è forse il caso di tornare a una storia più profonda, molto prima del 7 ottobre dello scorso anno, o addirittura della Nakba del 1948, per cogliere l’incomprensibile fallimento dei cosiddetti valori occidentali in Medio Oriente.

Durante la Prima guerra mondiale gli inglesi decisero di aprire un fronte contro l’alleato della Germania, l’Impero ottomano, nei deserti dell’Arabia Saudita e della Siria. Allora governata da Istanbul, questa fascia di territorio che si estendeva dallo Yemen e dalla Mecca a sud fino a Damasco e Beirut a nord e dal Mediterraneo all’Iraq a est era il centro del mondo arabo. Più a ovest gli Ottomani avevano già perso l’Egitto, la Libia, la Tunisia e l’Algeria a favore di inglesi, italiani e francesi.

IL MONDO ARABO fu incoraggiato dal comando britannico in Egitto a ribellarsi con la promessa della creazione di un regno arabo dal Mar Rosso a Damasco e dal confine persiano al Mediterraneo. Questa nuova entità politica comprendeva la Palestina. Ciò che avvenne in seguito non riguardava semplicemente audaci imprese militari con incursioni di cavalleria nel deserto e Lawrence d’Arabia che cavalcava nell’immaginario occidentale. Si trattava di nazionalismo arabo.

In una serie di scambi epistolari del 1915 tra Sir Henry McMahon al Cairo e Sharif Husain alla Mecca, i termini e le condizioni della rivolta nel deserto furono esplicitamente elaborati e approvati. Il governo britannico non ha mai reso disponibile questa corrispondenza prima del 1939. È stata studiata nella sua versione araba e può essere consultata in inglese nel volume critico del 1938 raccomandato da Edward Said, The Arab Awakening dello scrittore e diplomatico libanese George Habib Antonius.

Ma a questo accordo documentato se ne aggiunse un altro che coinvolgeva gli inglesi e i francesi e le loro rivendicazioni sull’area. Se le preoccupazioni britanniche per il passaggio in India e la protezione del Canale di Suez erano brutalmente pragmatiche, quelle francesi si rifacevano a legami più antichi che risalivano ai luoghi mitici della cristianità e alle Crociate.

L’accordo Sykes-Picot per la suddivisione del «Medio Oriente» tra Gran Bretagna e Francia in territori mandatari era segreto. Poi, nel 1917, il governo britannico, rispondendo alle pressioni sioniste (e alla manipolazione dei sentimenti antisemiti nel cuore del governo britannico), produsse la Dichiarazione Balfour, promettendo una patria per gli ebrei in Palestina.

Sia l’accordo Sykes-Picot che la Dichiarazione Balfour furono elaborati ignorando e contraddicendo apertamente la promessa iniziale che portò il mondo arabo alla rivolta e al successivo smantellamento del potere turco nella regione. In parole povere, gli arabi furono traditi.

IL REGNO ARABO proposto è stato sequestrato dalla Gran Bretagna e dalla Francia e successivamente suddiviso in Stati nazionali nascenti (Iraq, Giordania, Libano, Siria… Israele) i cui confini riflettevano le preoccupazioni europee, non certo le forze e le relazioni politiche e culturali che storicamente sostenevano l’area. Quest’ultima dinamica è stata cinicamente schiacciata in un’altra mappa e in un altro ordine politico.

Cento anni dopo, l’insediamento occidentale rimane saldamente al suo posto. Il passato non è passato. E non è nemmeno un semplice fantasma del presente. Il linguaggio stesso utilizzato, sia che ci si riferisca al «Medio Oriente», agli «arabi» o allo Stato etnico suprematista di Israele come «democrazia», tradisce le coordinate coloniali della sua costituzione.

Certo, gli attori e le condizioni sono cambiati. Tuttavia, l’insistenza di questa mappa del potere politico e la sua negazione dei diritti indigeni – sia direttamente nel caso della Palestina, sia indirettamente attraverso l’esercizio di governi autocratici invariabilmente sostenuti da potenze esterne che premiano la «stabilità» – rimangono saldamente al loro posto.

Ciò che più colpisce in questo quadro politico è l’assoluto rifiuto della responsabilità occidentale. Il più evidente è il governo britannico che, fin dall’inizio, ha cercato di coprire le proprie tracce abbandonando prima gli arabi e poi lavandosi le mani della questione ebraica in Palestina. Più recentemente, sotto l’egemonia americana, sono continuati la brutalità degli interventi militari diretti dell’Occidente.

Anche in questo caso, hanno portato a disastri politici nell’area (Iran, Iraq, Libia) accompagnati dalla costante attività di polizia per procura affidata a Israele. Cosa significa tutto questo? Dobbiamo aspettarci un’altra rivolta nel deserto? Questo, ovviamente, è già avvenuto.

NEL 2014 lo Stato Islamico o Isis, affiliato ad al Qaeda, ha cercato violentemente di ridisegnare la cartografia dell’area. Un’altra vittima della mappa europea – i curdi – è stata in gran parte determinante nel fermare la loro proposta. Ma dietro intricate forme culturali e complesse forze storiche, è stato l’Occidente e la sua continua gestione coloniale del mondo arabo a produrre la violenza quotidiana, il terrorismo e il fondamentalismo che tanto pubblicamente denuncia e teme.

Continuare su questa strada, come sembra attualmente, è forse la vera espressione dei valori occidentali: coloniali nelle intenzioni e, quando necessario, genocidi nella pratica.

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