Vila-Matas, dietro la porta cieca il visibile è solo ciò che resta dell’invisibile
Scrittori spagnoli Un romanzo in forma di biografia del proprio stile, fatto di appunti per una «prosa intempestiva»: «Montevideo», da Feltrinelli
Scrittori spagnoli Un romanzo in forma di biografia del proprio stile, fatto di appunti per una «prosa intempestiva»: «Montevideo», da Feltrinelli
Un atto di resistenza alla invasione del panorama narrativo odierno da parte della realtà (quotidiana, politica, sociale) quando non del proprio romanzo familiare: è una interpretazione possibile della scrittura romanzesca di Enrique-Vila Matas. Oppure: un cedimento del proprio Io di fonte alla libidica tentazione di reminiscenze letterarie, che premono per intromettersi fra la penna e la carta. O anche: un atto di pudore che vela la trasparenza del proprio mondo psichico alterandone il riflesso, non appena tocca la pagina. O ancora: la vendetta della propria vena saggistica, schiacciata, ma non del tutto, dalla vittoria del serpente narratore, nel giardino dell’Eden – il romanzo – dove tutto è possibile. O forse: il gioco narrativo di una creatività infantile, che in precario equilibrio salta da una casella all’altra della propria biblioteca ideale, raccogliendo e poi depositando e dunque reincrociando tra loro le pietre miliari della propria ragnatela esistenziale. L’ultimo libro di Vila-Matas, nell’ipotesi della sua voce narrante, è una «biografia» del proprio «stile», una sommatoria di appunti per una «prosa intempestiva», un romanzo fatto di associazioni di idee alla fin fine consequenziali, fra la caduta di un fulmine e un altro sulla testa del protagonista, durante un temporale a Parigi: al lettore decidere se questi strali dal cielo siano casuali o causali, ovvero mandati per bruciare sul nascere pensieri inconcludenti.
In Montevideo (traduzione di Elena Liverani, Feltrinelli, in uscita martedì, pp. 224, € 20,00) ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è del tutto intenzionale, e funziona da anti-bussola per disorientarsi in letture note e in altre mai fatte, guidati per contrasto da una prosa limpidamente seducente, nonché manifestamente sprezzante di ogni formalità post-sperimentalista.
Tutto, o quasi, verte sulla rivisitazione di amatissimi cliché, a partire dall’incipit che restituisce carne e sangue alla silhouette del giovane transfugo a Parigi, desideroso di trasformarsi in uno scrittore della generazione perduta, ideatore di poesie che ruotano intorno al tema della solitudine e delle turbolenze dell’anima. Poesie purtroppo mai scritte per mancanza di energie da sottrarre al più proficuo spaccio di droghe. La voce narrante si presenta dunque come uno scrittore che ha smesso di scrivere, non avendo peraltro mai cominciato, e questa sua poetica dell’abbandono dell’opera, prima che l’opera ci sia mai stata, lo rende un esperto di sbandamenti nel circolo delle cinque tendenze narrative (che forse sono persino sei) diversissime tra loro, tutte confluenti nel personale approdo a un risultato uguale a zero.
Lasciato alle spalle il racconto di questo frammento parigino, intervallato da passaggi repentini di palo in frasca, e autoinflitta la diagnosi di «collasso Valéry», ovvero la famosa sindrome di soccombenza della propria attitudine narrativa di fronte alle pressioni dell’intelligenza analitica, il narratore si avvia senz’altro sulla strada della «disperazione controllata». E qui converrà staccarsi dalla sua ombra e saltare a quella dell’autore, per indugiare negli equilibri punteggiati di quell’illecito godimento che si prospetta al lettore sotto forma di…trama!
Invitato per una conferenza a Montevideo, il narratore accetta con entusiasmo quella destinazione a lungo sognata, perché proprio nella città uruguayana Cortázar aveva ambientato un racconto intitolato La porta condannata, che Béatriz Sarlo ha indicato come «il luogo esatto in cui il fantastico irrompe nella narrazione» dello scrittore argentino. Come non andare a verificare di persona? Tanto più che non si sa se il caso o un processo stocastico o il disegno di Dio fece sì che anche Bioy Casares avesse scritto, più o meno negli stessi giorni, un racconto molto simile, Il mago immortale. È giù ad analizzare le coincidenze…. Fatto sta che, sebbene non proprio in quattro e quattr’otto, alla fin fine il narratore arriva alla stanza 205 dell’Hotel Cervantes, che nel frattempo ha cambiato nome in Esplendor, e alla ricerca della porta cieca la trova effettivamente nascosta dietro un armadio, per giunta socchiusa. È buio e ha sonno, dunque rimanda l’esplorazione della stanza che si apre dietro quella soglia alla mattina dopo; ma quando con rinnovato vigore torna alla sua intenzione originaria, si accorge non solo che la camera contigua è scomparsa ma che la porta dietro all’armadio è stata chiusa dall’altro lato. La condanna inferta da Cortázar alla porta si ritrova duplicata, nonché ornata da due dettagli – un ragno e una valigia rossa – che, come in tutti i romanzi che si rispettano, torneranno a infittire l’enigma.
Alla prima occasione, il povero narratore racconta all’amica Madelaine Moore – una performer che a suo tempo gli aveva già segnalato la retta via, invitandolo a prendere le distanze da quanto ci succede piuttosto che morire per idee, stili e teorie – l’affaire della stanza scomparsa e della relativa porta. E viene così a scoprire che ancora una volta Madeleine ha in serbo per lui una lezione di vita, per il momento nascosta dietro una solitaria stanza unica (contrassegnata con il numero 19, in riferimento a un film di Terence Fisher, So Long at the Fair, che guarda caso rimanda a quanto Sebald aveva indicato come la scintilla visibile dietro il tessuto logoro, eccetera eccetera eccetera), una stanza allestita al centro della retrospettiva dedicata a se stessa, che l’artista sta per l’appunto montando al Beaubourg.
Dopo le consuete associazioni, reminiscenze, digressioni incrociate, e non prima di avere scomodato alcuni astri del creato letterario, il narratore in questione penetra nella stanza confezionata per lui, la scopre del tutto buia, e ipotizza che questa sia la punizione escogitata dall’artista a causa del suo esplicitato disprezzo per i «mondi interiori». Naturalmente si sbaglia. Dunque, attraversata la foresta di altre numerose citazioni, evocazioni, rimandi letterari, il lettore perverrà al vero colpo di genio del romanzo, che Vila-Matas mette in bocca all’artista per spiegare allo stolto narratore come la camera buia allestita per lui sia la versione maschile della stanza tutta per sé di Virginia Woolf, pensata da Madeleine come l’inferno degli uomini condannati a ascoltare la registrazione delle «loro pagine immortali», e dunque le relative sciocchezze accumulate, allo scopo di favorire la svolta verso una nuova fase, che nel narratore potrebbe coincidere con lo sblocco della sua scrittura.
Fedele alla massima per cui «il visibile non è che è un residuo dell’invisibile«, da una fessura nella famosa porta Vila-Matas aveva intanto insinuato nel romanzo il suo evidente alter-ego, ovvero lo scrittore Cuadrelli, da tempo impegnato in un libro il cui intento è stroncare una volta per tutte il famoso «I would prefer not to» pronunciato dallo scrivano Bartleby: frase infinitamente ripresa, non ultimo dal narratore stesso nella stesura di un libro – Virtuosi della sospensione – in cui, oltre vent’anni prima aveva analizzato i casi di scrittori affetti dalla nota «sindrome di Rimbaud», ovvero quella attrazione per il nulla, che rischia di coinvolgere lui stesso nel non scrivere più niente.
A Cuadrelli, l’autore di Montevideo – che nel frattempo si sarà chiarito essere «uno stato d’animo» più che una città – mette in bocca qualcosa che suona come uno sfogo contro le molte interviste subìte, ovvero una filippica sul fatto che non c’è altro da dire su un libro se non quanto detto nel libro stesso. Affermazione del tutto compatibile con il primo posto assegnato nella graduatoria della stupidità allo scrittore secondo il quale la parte più interessante della sua storia non si può spiegare perché raccontandola la si rovinerebbe.
Nel caso non fosse chiaro, Cuadrelli è la coscienza critica del romanzo così come Morelli (il narratore confonde i nomi) lo è di Rayuela, il capolavoro di Cortázar… Ma ora basta, perché un bel gioco dura poco.
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