Nella prefazione a uno dei suoi drammi più riusciti, Santa Giovanna, dedicato alla martire di Domrémy, George Bernard Shaw scrive: «Francesco sarebbe potuto finire sul rogo, se avesse vissuto un altro po’». La sorte capitata a Giovanna d’Arco, quella di essere arsa viva per avere seguito voci da lei ritenute sante, sarebbe potuta capitare anche ad altre due donne che la precedettero di qualche generazione: Margery Kempe e Julian di Norwich.

Entrambe visitate dal Cristo, la prima proveniva da famiglia mercantile e ebbe molti figli; la seconda scelse invece per sé la vita dell’anacoreta. Delle loro esistenze permangono due libri: un’opera nota come il Libro di Margery Kempe, da lei dettato in quanto analfabeta, e le Rivelazioni dell’amore divino, scritto da Julian di Norwich, che circolò in due versioni, una breve e una lunga. Erano entrambe donne a loro modo rivoluzionarie, ma molto diverse: Margery Kempe, votata all’azione, fu ostracizzata a lungo e sottoposta persino a un processo per eresia; Julian di Norwich fu osannata, adorata, e divenne oggetto di visite da parte di uomini di fede ma anche di persone comuni, tra le quali proprio Margery Kempe, che ne parla nei resoconti dei suoi tanti viaggi in giro per l’Europa, che la portarono persino in Terrasanta. La storia di questo incontro è raccontata nell’esordio romanzesco di Victoria MacKenzie, scrittrice nata a Brighton, che ha studiato e vissuto principalmente in Scozia dove risiede: Abbi pietà del mio piccolo dolore (traduzione di Viola Di Grado, Il Saggiatore, pp. 176, € 17,00) è un libro di cui si è molto parlato quando uscì in Inghilterra, la cui scrittura asciutta risente del clima letterario che si respira a nord dell’Inghilterra. Ne è venuta fuori una narrazione strettamente realista, ma visitata spesso da elementi visionari, e con concessioni non di rado intimistiche.

Preparato da sezioni narrative brevi, l’incontro fra Margery Kempel e Julian di Norwich viene raccontato in prima persona dalle due donne, che elencano ognuna le tragedie familiari, i primi contatti con il Cristo e, nel caso di Margery, il vivere a tu per tu con il peccato, con la vita osservata da posizioni di subalternità, nel dubbio che le sue esperienze spirituali non fossero guidate da esseri demoniaci.

La Chiesa del tempo in Inghilterra (siamo lontani dalle aperture più tolleranti dell’Anglicanesimo) vedeva con grande sospetto chiunque si allontanasse da una visione ortodossa del rapporto tra umano e divino, rapporto che andava di norma mediato dal clero. Tanto più inaccettabile era il solo pensiero che il sacro potesse rivelarsi a un’esponente del sesso femminile, e men che meno era possibile rendere pubbliche quelle esperienze. Proprio da questa consapevolezza trae molta della sua forza il romanzo di MacKenzie: «Ho comunicato a mio marito che volevo fare un resoconto della mia vita. “Le parole mi frullano nel cervello”, gli ho detto. “Ronzano come api. Le mormoro a me stessa”. “Ma Margery, una cosa del genere non avrebbe alcun interesse. Una donna sa poco della vita”, ha risposto. “Altre donne potrebbero essere interessate”, commentai… “Le donne non sanno leggere”, fece presente, “il loro cervello è troppo soffice».

In altri luoghi a prevalere è un lirismo mai scontato, come nelle confessioni dell’anacoreta che vive in una fredda cella dove attende la morte in compagnia soltanto del suo gatto: «Il cimitero è silenziato dalla neve, che immobilizza ogni moto dell’erba e dei ramoscelli. Non v’è canto di uccelli… Gli occhi del mio gatto brillano alla luce della candela, più diabolici che angelici. Ma poi si lava, prima di girar e rigirare il suo corpo soffice in una spirale, preparandosi al sonno che assomiglia tanto alla morte».

Ispirato alle vicende di due donne coraggiose e a loro modo rivoluzionarie, questo breve romanzo è scritto con grande accortezza e sensibilità. Evitando eccessi sensazionalistici e invettive scomposte, ritrae con grazia esistenze lievi ma significative, facendo rivivere quelle parole di amore e speranza che la forza del tempo non ha messo a tacere.