È senz’altro appagante vedere Boris Johnson incamminarsi lungo il suo mai abbastanza meritato Sunset boulevard, per carità. Poi uno riflette un istante. E capisce che il peggio deve ancora venire. Perché il problema non è certo lui, ma il suo partito. Lo stesso che lo ha mandato avanti, che gli si è affidato per disperazione, per iniettare il vigoroso populismo sub specie britannica (Brexit, Farage) nelle braccia estenuate di vecchi bigotti e neutralizzare il pericolo di un Labur degno di questo nome che stava gettando un macigno nella morta gora post-blairiana (Corbyn).

UN PARTITO CHE HA fatto dell’ipocrisia un manifesto: il peloso pellegrinaggio a Downing Street per dirgli di andarsene per via dell’«integrità», le letterine di dimissioni finto-sdegnate dei Sunak e dei Javid che hanno aperto la voragine nel consenso alla sua premiership, scaturiscono dal più bieco calcolo politico. Tutti ben sapevano che, una volta uscito fuori dalla lampada, il “genio” non ci sarebbe mai più rientrato. Si fingono indignati quando erano ben consci che proprio le manchevolezze che ora lamentano nel loro ex-campione – la «pigrizia», la «mendacità», la «scarsa attenzione per il dettaglio», la «scarsa integrità» – gli avrebbero permesso di ottenere l’uscita dall’Unione europea e di disinnescare il pericolo Corbyn. Trovando l’unico uomo politico nelle loro fila capace di abbinare il privilegio di classe che si ostinano anacronisticamente a difendere con la simpatia, l’accessibilità, la naturale predisposizione all’intrattenimento.

Perché Boris Johnson è sempre stato Boris Johnson: da quando andava a Eton, da quando ha ottenuto grazie al medesimo privilegio di nascita i posti da scribacchino allo Spectator e al Telegraph, da quando era sindaco di Londra appeso alla teleferica con le bandierine in mano. Il resto, la torsione costituzionale fra monarca, governo e parlamento, lo spingere populisticamente verso una democrazia più presidenziale che parlamentare, i paragoni con Trump, sono arrivati dopo, quando ha deciso di cavalcare il marasma Brexit.

È UNO CHE SA SOLO fare i propri interessi ed è immune dal moralismo puritano bacchettone di cui è intrisa la politica “anglosassone”, punto. Figuriamoci, lui pensava al terzo mandato – che avrebbe tranquillamente potuto vincere se non avesse esagerato con la propria tracotanza – e aveva nei giorni scorsi ammesso candidamente – e onestamente – che non poteva cambiare il proprio «carattere psicologico». Perché è un vero personaggio tardoimperiale, un Nerone che suona la lira mentre Londra brucia di inflazione, food banks, lavori interinali pagati una miseria, banker che continuano ad accumulare profitti osceni.

JOHNSON, CHE HA GUIDATO la campagna per la Brexit e ha portato il suo partito a un’enfatica vittoria elettorale nel dicembre 2019, è manchevole delle virtù della probità borghese, come la «voglia di lavorare» di cui ora lo accusano. Non è nemmeno tanto un populista nazionalista di destra, fa il populista nazionalista di destra: nel profondo disprezza l’ignoranza e la volgarità di quel repertorio, ne ha usato solo alcuni stilemi rendendosi conto che sarebbero tornati utili. È invece un vero cosmopolita, uno dalle ascendenze turche, russe, ebraiche e persino circasse (attenzione, sempre a suo dire), uno troppo intelligente per essere il leader della parte più retriva, ridicola, bigotta, nazionalista e ignorante del suo partito. Se ne è servito, come loro di lui.

Lo si paragona a personaggi scespiriani (Falstaff?) quando al massimo pare uscito dalla penna intrisa di snobismo di un Evelyn Waugh. Tra la received pronunciation esemplificata da regina e Bbc e l’obsolescente idioma caricaturale di un aristocratico nella penombra del castello avito, tutto gargarismi e sputacchi che tradiscono un sempre rassicurante tasso etilico, l’eloquio di Johnson si avvicina molto di più a quest’ultimo. Grazie al rapporto economico con la sincerità, la sua poligamia e prolificità – è stato un leader con molti, imprecisati figli alla guida di una nazione che, come il resto d’Europa, è in pieno inverno demografico – è perfettamente post-ideologico, uno che per il Telegraph aveva notoriamente scritto due articoli, uno pro-Remain, l’altro pro-Leave e che aspettava solo di capire quale vento lo avrebbe portato prima a Downing Street.

IN QUESTO SENSO è un perfetto leader post-ideologico, che senza l’adrenalina e le endorfine del potere semplicemente non può stare. La sua vera colpa è che, come tutti i leader insicuri, si è circondato di mezze figure obbedienti ma estremiste e letali. Ora che si fa da parte, la destra Tory usata come veicolo per la sua carriera si prende la scena. Chiunque gli succeda, non ci sarà un sei gennaio al campidoglio con orde che invadono Westminster, ma le fratture civili si approfondiranno. Lui va: ma i suoi danni, le stupide guerre culturali contro il wokeism, le porcherie sui migranti spediti in Ruanda, il diritto negato di protestare in piazza, rimangono. (l. c.)