«Sono scappata il 5 aprile mentre intorno buttavano bombe. Mio figlio è rimasto lì, lavora nel Casinò….». La donna che ci viene incontro fa parte di quell’ondata di circa diecimila profughi birmani che tra il 5 e il 7 aprile si sono riversati dall’altra parte del fiume Moei che divide il Myanmar dalla Thailandia: venti metri forse nel punto più stretto che si attraversano per raggiungere i tendoni allestiti dall’esercito siamese.

L’OFFENSIVA IN CORSO dal 4 aprile, ma iniziata in realtà già dal 25 marzo, ha preso di mira proprio il Casinò dove lavora quel ragazzo. O meglio le decine di attività illecite o ai limiti della legalità che si praticano a Shwe Kokko, un nome difficile da trovare sulle mappe del Myanmar dov’è in corso da anni uno strategico riallestimento territoriale. Dove piovono investimenti miliardari e sorgono “città del vizio”, hub cybercriminali frontalieri accompagnati da schiavitù sessuale o semplicemente dall’impossibilità di lasciare il posto di lavoro una volta che ci si accorge che non cercavano un programmatore ma chi sappia rubar soldi da conti bancari altrui.

Le chiamano scam city, città della truffa. Ma l’offensiva della Karen National Union con le “colonne” della People’s Defence Force – fedele al governo ombra nato dopo il golpe birmano di febbraio – non sta facendo un’operazione di pulizia morale a Shwe Kokko.

Come hanno chiarito in un comunicato, invitando la popolazione ad astenersi dal circolare nei prossimi giorni, l’obiettivo sono gli interessi cinesi che, tra Belt and Road Initiative e i soldi sporchi che a volte ci si legano, nascono sulla frontiera con la Thailandia. Passa da qui l’East-West Corridor una delle tanti reti dello sviluppo interasiatico.

IL FLUSSO DEI PROFUGHI per ora si è fermato ma le fonti birmane ci assicurano che gli scontri sono ancora in corso a Shwe Kokko. Difficile capire se davvero, come dicono, la Brigata della frontiera (Bgf), un gruppo karen che ha tradito passando dalla parte dei militari e che di fatto gestisce la città, stia davvero vedendo la peggio.

Per Tatmadaw, l’esercito della giunta alleato con la Bgf e uso a raid aerei, sarebbe uno smacco perdere Shwe Kokko e i suoi soldi sporchi. E così sarebbe per la cybercriminalità cinese padrona di una città da cui, è bene ricordarlo, Pechino ha preso le distanze.
Mentre il Myanmar continua a sprofondare nelle tenebre di una guerra tra giunta militare e popolazione civile, con 1,5 milioni di sfollati e un bilancio delle vittime che alcune stime segnalano a oltre trentamila, Roma batte un colpo.

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È quanto si evince dalla risposta che la sottosegretaria agli Esteri Maria Tripodi ha dato alla parlamentare Laura Boldrini, già presidente della Camera, che a fine gennaio aveva chiesto lumi al ministro Tajani sui rapporti tra Italia e Myanmar. In una conversazione con la sottosegretaria alcuni giorni dopo, Boldrini si era anche informata sulle possibili procedure per scongelare i fondi italiani allo sviluppo che Roma aveva garantito all’esecutivo di Aung San Suu Kyi prima del golpe del febbraio 2021. Chiedendo se non fosse il caso di scongelarli, tramutandoli in aiuto umanitario per una popolazione che l’Onu stima per un terzo in condizioni di gravissima difficoltà.

Tripodi risponde che l’Italia, dopo aver «contribuito alla risposta umanitaria delle Nazioni Unite», ha «inoltre allo studio l’ipotesi di impiegare dei fondi della Cooperazione Italiana stanziati prima del colpo di Stato per finanziare un bando di emergenza» per le organizzazioni umanitarie italiane operanti in Myanmar. «Il Maeci – conclude la sottosegretaria – sta valutando la fattibilità dell’operazione, nell’auspicio di definire quanto prima le modalità dell’intervento». Una buona notizia.

QUELLA CATTIVA è che il riconoscimento del governo ombra di opposizione continua a languire in un limbo. Paradossale, visto che proprio due giorni fa, dopo la messa al bando definitiva di 40 partiti politici birmani tra cui la Lega nazionale per la democrazia di Suu Kyi – dalla Ue agli Stati Uniti, dal Giappone all’Australia – tutti hanno condannato il gesto invitando i militari a riconoscere come interlocutore il National Unity Government, benché la giunta lo abbia appena tacciato di «attività terroristiche».

I DIPLOMATICI FANNO NOTARE che il riconoscimento del Nug è un affare complesso e che avrebbe l’effetto di far chiudere le ambasciate con il conseguente annullamento di ogni possibile pressione e delle attività umanitarie dirette.

D’altra parte, riconoscere il Nug segnerebbe una svolta che potrebbe dare maggior forza all’opposizione. Nelle more, che si sblocchino i fondi e che attraverso le associazioni si dia sostegno umanitario alla popolazione birmana, appare una scelta di buon senso oltre che di sollievo, per quanto possibile, a chi soffre gli effetti dell’ennesimo conflitto. Come gli sfollati di Shwe Kokko.