Prendi un gruppo di amici d’estate al mare. Dopo cena, una di loro prende la chitarra e dice, «Vi dispiace se suono qualcosa?». Permesso concesso volentieri, anche se non se la tira per niente, alla signora con la chitarra.
Dopo tutto è senza ombra di dubbio la più grande musicista italiana dell’ultimo mezzo secolo e si chiama Giovanna Marini. C’è una poesia di Emily Dickinson a cui pensavo spesso quando mi trovavo vicino a lei: “A nearness to tremendousness”, stare vicini a qualcosa di immenso, che ti invade e ti sovrasta – e che al tempo stesso ti sta accanto, è familiare, e ti tratta come se tu fossi un suo pari.

Ho detto che è stata la più grande musicista italiana, non la più grande musicista “folk” e basta. Giovanna Marini la musica ce l’aveva tutta. Figlia di Giovanni Salviucci, uno dei compositori importanti del nostro ‘900, allieva di Andrés Segovia all’Accademia Chigiana, nasce come musicista classica, poi (raccontava) scopre la canzone popolare grazie a un incontro con Pier Paolo Pasolini. Nel 1964, è col Nuovo Canzoniere Italiano sul palco di Spoleto, in quel concerto intitolato “Bella ciao” che fa scoprire a tanti di noi l’esistenza di una musica popolare multiforme, radicale, insopprimibile, e bellissima, proprio come era lei.

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Dentro la musica popolare, però, Giovanna Marini ci stava a modo suo, creativo e non subalterno. Già dai tempi di “Bella ciao”, impara e ricanta le canzoni popolari ma sente anche il bisogno di inventarsele – come quel capolavoro assoluto che è “Lu cacciatore Gaetano”, che cantava sempre quelle sere al mare. A mano a mano che la frequenta, si accorge che la canzone popolare non è solo un repertorio in cui le classi non egemoni danno voce alla propria presenza alternativa nella storia, ma un linguaggio, una grammatica che va imparata e sviluppata per andare avanti, per parlare del nostro tempo e del futuro.

Una volta, ascoltando i nastri delle registrazioni sul campo che avevo cominciato a fare attorno a Roma, mi disse: «Questa è la mia placenta». La voce dei contadini, degli emigranti, degli sfruttati, come nutrimento della sua stessa creatività di artista colta – e la sua creatività colta come strumento per far ascoltare quella voce. Riconobbe musica nelle grida di una donna di borgata che urlava contro la polizia dalle finestre di un palazzo occupato e ne trasse gli elementi di stile su cui costruì quel mix di rap urbano e madrigale rinascimentale che ci ha dato ”I treni di Reggio Calabria” o i suoni con cui rivestì “Le ceneri di Gramsci” del suo amato Pasolini.

Aveva capito che la diversità della cultura popolare sta sia nelle storie che racconta, sia nella voce con cui le racconta; nel riproporre i canti, li “disarticolava” e ne estraeva quegli elementi di differenza, quelle unità stilistiche in cui si annidava una insopprimibile resistenza, esistenziale prima ancora che politica, e che le davano il linguaggio anche per inventare musica nuova e “andare più in là”.

Giovanna Marini è stata anche una grande artista della parola. Intanto perché dalla musica popolare aveva imparato che musica, parola, voce, corpo sono un’unità inscindibile (proprio a proposito di Pasolini spiegava che i nuclei della sua composizione partivano dalle sillabe delle parole). Ma soprattutto perché la sua creatività andava oltre. Era un’affabulatrice irresistibile, che rispettava i fatti solo nella misura in cui si adeguavano a verità più vaste e radicali, e se lo poteva permettere perché aveva quasi sempre ragione. Coglieva significati profondi attraverso percorsi imprevedibili che non avevano a che fare tanto con la logica quanto con l’intuizione irresistibile del genio, e li restituiva attraverso il simbolo e l’immaginazione. Nessuna analisi antropologica spiega le ambiguità e la necessità del rituale come la sua ballata della “Nave”. Tutti quelli che si occupano di uso pubblico della storia dovrebbero ascoltare la sua “Ballata dell’eroe”, l’arazzo che racconta le imprese dell’eroe e le distorce fino a che è lui ad adeguarsi alla rappresentazione – e morirne.

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I testi delle sue ballate e canzoni sono poesia civile altissima, come la preghiera laica di “Io vorrei” – il desiderio di un Dio che «con una mano gigante spazzasse via tutta quella gente che piega la legge ai propri interessi, poi dice a noi di fare lo stesso, che ripulisse terra mari fiumi montagne, cielo aria firmamento… Poi si fermasse a guardare un momento e regalasse un altro pianeta a chi non vuole né rubare né sporcare né corrompere né convincere né costringere né sconfiggere ma solo vivere, vivere con altra gente e tanto tempo e spazio attorno a sé».È
Una preghiera laica, ma sempre preghiera. Giovanna Marini era una cristiana profonda e insofferente, e una comunista a modo suo, mai disciplinata, sempre fedele. È per questo che può prendere un canto religioso abruzzese sulla morte di San Donato e trasformarlo nel laico e sacro “Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini” (e accostarci una melodia presa da Schubert).

Al di là della teologia e della politica, questa fede intrecciata la viveva nel suo modo di essere artista, sempre in comunione con gli altri (la musica l’ha composta sempre per cantarla con altri, dai meravigliosi quartetti di voci femminili ai grandi cori di Testaccio, al coro di comunità che ha messo in piedi a Monteporzio quando è andata a vivere lì). Ha sempre lavorato in contesti di condivisione e ha sempre insegnato: ha cominciato dal Nuovo Canzoniere Italiano, ha partecipato alla fondazione del Circolo Gianni Bosio, ha insegnato dieci anni alla Sorbona e, soprattutto, ha dedicato gli ultimi decenni della sua vita alla Scuola popolare di musica di Testaccio, ai cori di canti contadini e di canti sociali in cui si sono formate alcune delle nuove voci più significative della musica popolare e dintorni.

Una sera, a casa di un comune amico musicista, qualcuno mise su un disco di Bruce Springsteen. Giovanna viveva in un mondo sonoro alternativo, non l’aveva mai sentito. «Voce interessante», disse: «È uno importante?». Sì, Giovanna, è importantissimo. Ma mai quanto te. Mai quanto te.