Alle città che aspirano e si candidano al titolo di capitali europee della cultura si chiede di preparare un progetto che preveda processi di rigenerazione urbana e umana attraverso la cultura e le arti. E così ogni fase della candidatura diventa un processo immaginativo di cambiamento che investe la politica, la cultura e le comunità per sogni e progetti innovativi da realizzare.

Anche nel caso di Veszprém-Balaton 2023 Capitale Europea della Cultura il sogno di vedere una città e una regione nuova e migliore, più vivibile e più sostenibile ha preso forma e sostanza attraverso un interessante cantiere di progettazione che ha guardato sia agli investimenti materiali che a quelli immateriali, verso un equilibrio che non sempre si riesce a raggiungere.
Il finanziamento che viene, oltre che da Bruxelles, da Stato e Comune, per le capitali europee non è altissimo, ma quasi 120 milioni del budget verranno spesi per la realizzazione di opere pubbliche e ciò dimostra quanto sia cambiata la mission originaria delle capitali europee della cultura, nate negli anni Ottanta come veicoli di promozione della cultura e dei valori fondanti della Unione Europea per trasformarsi via via in leve di promozione dello sviluppo economico, turistico e sociale e non soltanto culturale delle città candidate.

L’inaugurazione
Aprire quindi una finestra sul futuro: è anche e soprattutto questo il senso che accompagna le cerimonie di apertura delle capitali europee della cultura. E aprendo le finestre al futuro si lascia entrare la luce. Shine, Luce, Lucentezza, Splendore, sono state le parole chiave che hanno ispirato il claim dell’evento inaugurale di Veszprém 2023. Ed erano davvero tanti e potenti i fasci di luce multicolore proiettati sulle facciate delle case e delle chiese, sui palazzi, sui campanili, sui tre palchi allestiti nella piazza principale del centro storico, in Kossuth Street e ai piedi del Castello. Luce che illuminava e intercettava gli abbondanti fiocchi di neve che dal pomeriggio cadevano su Veszprém, meno di sessantamila abitanti disseminati sulle sette colline della città, «città delle regine» e in particolare della regina Gizella sposa del re Stefano I, entrambi propagatori del cristianesimo in terra magiara. Una sagoma gigante della regina campeggiava davanti al palco centrale e su di lei ruotava la narrazione costruita da Can Togay Jáson, regista cinematografico (suo il film The summer guest proiettato nella sezione Un certain regard a Cannes 1991), attore, poeta e consulente artistico e creativo di Veszprém 2023. La musica, la danza, il teatro, i costumi, il suono delle campane e il videomapping creavano atmosfere tra il fiabesco e il rituale sacro e religioso, appena scalfite da chitarre rock e coreografie moderne, ‘fantasia urbana’ orchestrata dalla compagnia di artisti visivi Glowing Bulbs, dai danzatori Yvett Bozsik e Zoltán Zsuráfszky Jr, dal compositore Attila Pacsay, da Marcell Iványi, regista vincitore della Palma d’Oro.

L’ufficialità
La coincidenza della cerimonia inaugurale con il duecentesimo anniversario dell’inno nazionale ungherese ha orientato l’evento sulla sponda dell’orgoglio nazionale, del glorioso passato e della unicità identitaria del popolo ungherese, in piena continuità con il messaggio lanciato come un controcanto dalla Presidente della Repubblica Katalin Novák durante la cerimonia istituzionale parallela che si svolgeva in Hangvilla, curata dal regista e produttore cinematografico candidato all’Oscar Géza M. Tóth: ‘il direttore d’orchestra non si trova a Bruxelles, e nemmeno tra di noi, ma da qualche parte in alto sopra di noi’, ‘La culla della cultura – ungherese ed europea – è anche la famiglia. Anche le radici della cultura europea sono nella famiglia’, ‘L’anima ungherese è stata predestinata fin dall’inizio a suonare una nota nuova e unica nel concerto europeo’, ‘Il cristianesimo, forza culturale dell’arcidiocesi di Veszprém, si è sempre nutrito di valori divini e umani universali’.

Meglio mettere in campo temi e obiettivi cruciali come ad esempio destagionalizzare il turismo, rendere più accessibile la cultura nei piccoli Comuni, lavorare con le comunità locali, colmare il gap generazionale. «Siamo partiti dai punti di forza della nostra regione- ribadisce Can Togay Jáson-, Veszprém nel 2019 è stata designata dall’Unesco città della musica, è la città col più alto numero di musicisti e cantanti in Ungheria, qui è nato Leopold Auer e l’Auer Festival, abbiamo festival musicali di ogni genere, dalla musica classica all’elettronica, dal folk al rock, dalla street music a quella balcanica. Molti eventi si tengono in estate e proveremo a coordinarli per una programmazione che si svolga tutto l’anno». Partendo dalla musica, l’intento è anche quello di rafforzare il potenziale imprenditoriale dei bar, pub, cafè trasformandoli da luoghi di mero consumo in luoghi comunitari pubblici di esperienza, di apprendimento e di creatività.
Meglio guardare al futuro con l’apertura del Centre of Digital Experiences (CODE): nell’ex mercato della carne si porteranno i giovani verso il mondo digitale dove intelligenza artificiale, realtà virtuale e robotica la faranno da padroni, ospitando installazioni digitali e analogiche permanenti e temporanee, performance immersive e interattive. E in quello che era un ospedale pediatrico, nell’area universitaria attuale verrà creato l’ActiCity Centre con tanti spazi dedicati allo sport, alla ricerca, allo sviluppo tecnologico, alla creatività, alle arti, nascerà un parco, il green city center, un centro per il folklore e le attività di yoga.

Alla cura del paesaggio e alla ecologia guarda il progetto Balatorium che interviene sul lago Balaton, il più grande lago dell’Europa centrale, un ecosistema che si intende salvaguardare e valorizzare attraverso l’impegno e il coinvolgimento dei turisti, dei residenti, dei pescatori, degli artisti e degli scienziati, arricchendo i percorsi naturalistici e di cicloturismo. E sul rapporto tra cultura ed ecologia si snoderà l’ Holtszezon, Off-Season Contemporary Literature Festival, promosso dai giovani per i giovani con una attenzione speciale ai tradizionali generi letterari ma anche al giallo e alle canzoni.

Sino al 2003 nei sotterranei del Castello c’era il carcere cittadino e qui arriverà a novembre 2023 la mostra/installazione performativa e interattiva Human behind the bar: dalle 18 celle i visitatori potranno ascoltare i suoni e le storie sulla vita e sul tempo che scorre nel carcere, catturati dai comportamenti duri e violenti subiti dai detenuti. Per finire con il progetto InterUrban grazie al quale suoni e tradizioni di altre città arriveranno a Veszprém, da Kaunas a Gent, da Londra a Bologna, da Siviglia a Tampere, da Skopje a Tel Aviv a Kingston.
Si muove quindi tra speranze di cambiamento e forti contraddizioni la cultura europea ed europeista, che a Veszprém gioca la sfida più difficile e stimolante.

Materia poetica pescata dal lago tra geometrismo, pop, hard-edge: le mostre
Ci si addentra nell’immaginario della modernità con le tre mostre, collocate le prime due dentro la cinta muraria dell’antico castello in cima ad una delle sette colline di Veszprém, la Modern Art Gallery che ospita la collezione privata di László Vaas e l’House of Arts che espone nella mostra Balaton retrò curata da Viktória Herth i materiali che dagli anni Trenta sino al 1988 in poi hanno pubblicizzato l’attrazione fatale della località turistica ungherese più rinomata, il lago di Balaton.

Dalle acque azzurre del lago trovava ispirazione quella propaganda, anticipando il marketing territoriale e della cultura con le locandine dei film di István Bujtor, le cartoline souvenir, la pubblicità della lattina di Balatonví, Fidel Castro che navigava con il primo ministro ungherese János Kádár, le sedie da campeggio, i materassini in gomma , le scatole di cibo in metallo e sabbiere e soprattutto i costumi interi delle donne di color blu, rosso, arancione, nero e bianco. È un frizzante spaccato della dolce vita in salsa ungherese che stempera con sprazzi di divertimento, eleganza e fantasia il grigiore della propaganda e del potere sovietico.

László Vaas è una figura davvero singolare nel panorama internazionale, creatore di un marchio di scarpe conosciuto e venduto in tutto il mondo che ha affiancato agli spazi del suo laboratorio artigianale una galleria che accoglie tendenze e movimenti dell’arte contemporanea, dalla pop art al minimalismo, dal Bauhaus al geometrismo. C’è la mostra al femminile Structural Harmonies, con le opere di Agnes Martin, Anna Mark, Aurélie Nemours, Ditty Ketting , Zsófia Farkas, Geneviève Claisse , José Heerkens , Katalin Hetey, Ibolya Lossonczy, Marcia Hafif, Dóra Maurer, Vera Molnár, Nelly Rudin, Judit Nem’s, Márta Pán, Eszter Radák , Rita Ernst, Sarah Morris, Shizuko Yoshikawa, Júlia Vajda, Erzsébet Vaszkó, Verena Loewensberg, Kati Vilim, Yuko Shiraishi. E ci sono pezzi pregiati di Jenő Barcsay, Max Bill, Christo, Joseph Albers, Imre Bak che connettono Veszprém al contesto internazionale, dando un senso e un orientamento alla capitale europea della cultura 2023 dall’architettura postmoderna al Neo-geo e all’astrazione.
Tuttavia, la terza e la più interessante mostra la si trova a Balatonfüred in un villino dallo stile eclettico abitato agli inizi del Novecento dall’arcivescovo Kolos Vaszarerty ora diventato Galleria Vaszary. Proprio qui sono stati antologizzati gli ultimi venti anni di carriera di Imre Bak nella mostra Situations con annesso un bellissimo catalogo, il tutto confezionato dal giovane e coltissimo curatore Dávid Fehér, direttore del Central European Research Institute for Art History (KEMKI).

Insieme all’altra mostra antologica Timely Timelessness Layers of an Œuvre | 1967–2015 presentata nel 2016 nella Galleria di Paks anch’essa curata da Dávid Fehér, Situations può essere vista come una sorta di testamento dell’artista ungherese che, ottantatreenne, avrebbe dovuto partecipare all’opening impreziosendo la cerimonia d’apertura di Veszprem 2023, ma è deceduto pochi giorni prima della inaugurazione. E ciò che sorprende in questa mostra è anche la speciale consonanza e condivisione di idee e di traiettorie emozionali che svela una assoluta sintonia tra curatore e artista.

La pittura di Imre Bak attraversa più di cinquanta anni di storia dell’arte, partendo negli anni Sessanta da forme di geometrismo pittorico, appassionato protagonista nella stagione dell’astrattismo e del concettualismo quando gli artisti si rifiutavano di rappresentare la realtà, ma pure dentro e fuori l’hard edge, che si collegava alle tradizioni folk ungheresi. Come scrive Dávid Fehér, ‘Imre Bak aveva creato la propria risposta pittorica ai movimenti hard-edge e minimalisti americani e tedeschi. Nei decenni successivi, Bak ha sviluppato costantemente il linguaggio formale dell’astrazione post-pittorica e dell’astrazione geometrica, bilanciando le tradizioni dell’avanguardia locale con il linguaggio in continua evoluzione della pittura contemporanea’.

Imre Bak, «Senza titolo»

Negli anni Settanta, Imre Bak unisce al suo geometrismo visuale una maggiore consapevolezza semantica lavorando con analogie, significati e significanti. Alla metà degli anni Ottanta si confronta con la poetica della transavanguardia e del postmoderno, senza perdere completamente le lezioni del passato. La sua vicenda artistica procede per sovrapposizioni, contaminazioni e slittamenti. ‘Il suo pensiero teorico- dice ancora David Fehér- era ispirato da autori come Béla Hamvas, che analizzò le culture arcaiche, la sua pedagogia era influenzata da artisti come Vasilij Kandinsky e Paul Klee. Le sue opere erano in permanente dialogo con le tendenze contemporanee, dall’architettura postmoderna al Neo-geo e all’astrazione post digitale, nelle sue opere egli evocò artisti classici da Giovanni Bellini a Pieter Bruegel, da Vittore Carpaccio a Arnold Böcklin. E nei suoi saggi teorici Bak interloquisce con i maggiori protagonisti della storia della cultura e della filosofia da Maurice Merleau-Ponty a Martin Heidegger, da Paolo Santarcangeli a Karl Jaspers’. È raro trovare negli artisti contemporanei una consapevolezza teorica così profonda come quella di Imre Bak, evidenziata in saggi fondamentali come On Infinity in Painting del 2000 oppure Postmodern Squares or the Timeliness of Metaphysics del 2002.

Se gli anni Ottanta rappresentano lo sviluppo dell’immaginario postmoderno quando Imre Bak dipinge quadri rettangolari come fossero forme e modalità analogiche di guardare la realtà, gli anni Novanta virano verso la rivoluzione digitale e le strutture spaziali diventano fondamentali nel suo linguaggio pittorico. La dominante è sempre fatta di linee orizzontali e verticali ma soprattutto di quadrati in forma di piazze, dove la composizione geometrica rinvia alla dimensione spirituale e immateriale della esistenza umana.

Il postmodernismo di Imre Bak non è solo gioco di superficie o superfice di pelle di deleuziana memoria, ma è strettamente legato al suo paesaggio interiore, a quella «anima della geometria», di cui parlava Paul Claudel.

«Aritmetica! Algebra! Geometria! Trinità grandiosa! Triangolo luminoso! – aveva scritto Lautréamont –, chi non vi ha conosciuto è un insensato! ma chi vi conosce e vi apprezza non vuole altri beni terreni, si contenta dei vostri magici godimenti e, portato dalle vostre ali scure, altro non desidera che d’elevarsi, con volo leggero verso la volta sferica dei cieli».
L’interrogativo che Imre Bak si pone lungo l’ultimo decennio della sua vita è uguale a quello di Matisse: come si può dare forma al colore? E la risposta è che si possono trarre emozioni dai colori quando questi si trasformano in luce e forma, per poi diventare spazio. Colore, luce, spazio diventano così materia poetica, vibrazioni metafisiche e intime, diventano musica.