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Vertice Nato a Vilnius, un appuntamento al buio

Vertice Nato a Vilnius,  un appuntamento al buio

L’11 e il 12 luglio riunione annuale dell’Alleanza, a due passi dal confine russo e a uno da quello bielorusso: se apre all’ingresso dell’Ucraina allontana ogni soluzione del conflitto

Pubblicato più di un anno faEdizione del 7 luglio 2023

Al crollo dell’Urss il politologo Arbatov, grande esperto d’America, aveva ironizzato: «Vi faremo una cosa terribile, vi priveremo del Nemico». Si sbagliava. Washington individuò presto nuovi nemici, dando ragione alla profezia dell’ex-ambasciatore Usa a Mosca, George Kennan: «Anche se l’Urss sprofondasse nell’oceano domani, il complesso militare-industriale degli Usa resterebbe intatto in attesa di inventarsi altri avversari». Ecco, infatti, Bush invadere l’Afghanistan (e poi l’Iraq) con due ambiziose operazioni di nation building senza fare appello all’Onu; preferì ricorrere alla Nato, ossia a quell’Alleanza atlantica creata nel 1949 per difenderci dai sovietici.

Che c’entrava con l’Afghanistan, distante 5000 km dall’Atlantico? Chi conosceva il Paese meglio di tutti era l’ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov, il quale ripeteva gli americani: «I militari della Nato si stanno alienando le simpatie degli afghani, con cui comunicano dalle canne dei mitra protetti dalle corazze degli Humvee. I sovietici sbagliavano allora e le forze Nato sbagliano ora ad uccidere tanti civili. La Nato sta vincendo le battaglie ma perderà la guerra». Infatti. La banale realtà è che, crollata l’Urss, la Nato doveva riciclarsi e volentieri accettò il nuovo ruolo affidatogli da Washington: esportare la democrazia. Un compito non proprio adatto per un organo istituito per altri fini. Se è vero che la funzione crea l’organo, qui è stato l’organo a creare la funzione, nella peggior tradizione delle burocrazie.

Subito si mossero i fabbricanti d’armi: negli Usa finanziarono persino un Committee to Expand Nato, in modo da aprire un nuovo gigantesco mercato per i loro prodotti. Da allora la Nato ha raddoppiato il numero di Stati membri: sempre più a est, fino a vellicare il “ventre molle” della Russia, ossia Ucraina e Georgia.

Nel 2008 un diplomatico americano dal naso fine, William Burns, era ambasciatore a Mosca. Il 1° febbraio inviò a Washington questo dispaccio (pubblicato grazie a Wikileaks): «Le aspirazioni di Ucraina e Georgia di entrare nella Nato toccano qui un nervo scoperto e generano serie preoccupazioni per la stabilità della regione. La Russia non solo si sente accerchiata, ma teme anche conseguenze incontrollabili e lesive della propria sicurezza. L’Ucraina in particolare, abitata da tanti russi contrari ad aderire alla Nato, potrebbe incorrere in una guerra civile. In tal caso Mosca dovrebbe decidere se intervenire: una decisione che non vuole dover affrontare». E sottolineava: «La graduale svolta dell’Ucraina verso l’Occidente è una cosa; accoglierla de jure tra i nostri alleati militari è ben altra cosa». Come mai Burns inviava a febbraio quell’avvertenza? Perché sapeva quale piatto la cucina neocons dello sprovveduto presidente Bush intendeva ammannire al Vertice della Nato fissato per aprile a Bucarest.

Quel Vertice del 2008 fu molto più che l’usuale appuntamento annuale. Vi parteciparono 48 capi di Stato o di Governo, incluso Putin, perché a latere del Consiglio Nato si teneva anche il Consiglio Nato-Russia e la riunione del Partenariato per la Pace. Davanti a quella platea Putin venne umiliato dall’invito a Georgia e Ucraina ad entrare nella Nato. Nella Dichiarazione finale, infatti, fu inserita la frase seguente (par. 23): «La Nato accoglie con favore le aspirazioni euro-atlantiche di Ucraina e Georgia di farne parte. Oggi abbiamo convenuto che i due Paesi diventeranno membri della Nato».

Era stato l’entourage di Bush a pretendere l’inserimento di quel paragrafo, contro le resistenze degli europei (e dell’ambasciatore Burns). Non solo, poco dopo gli Usa piazzarono in Polonia una batteria di missili interceptors, con la giustificazione che servivano a parare un’aggressione missilistica dall’Iran (sic).

Sarebbe bene tener conto di questi e di altri precedenti: non per giustificare ma per capire l’aggressiva paranoia del Cremlino. L’Occidente proclama il «diritto» (irrealistico) di Kiev di accedere alla Nato in base al principio (capzioso) che rifiutarlo sarebbe – parole di Stoltenberg – «una violazione dei nostri principi di autodeterminazione dei popoli». In base al Trattato, infatti, può aderire all’Alleanza «qualsiasi Stato europeo in grado di contribuire alla sicurezza dell’area del Nord Atlantico», ma non si vede come l’Ucraina e la Georgia possano contribuire alla «sicurezza del Nord Atlantico». Tutt’altro.

Ora la Nato si appresta a riunirsi a Vilnius, una città a due passi da Mosca e uno da Minsk. A maggior ragione, riproporre al Vertice di invitare l’Ucraina nell’Alleanza sarebbe l’ennesimo errore. Finché ci ostiniamo a metterlo nero su bianco, la maggioranza dei russi – ritenendosi a torto o a ragione minacciata – sosterrà la guerra in corso e finché la maggioranza dei russi sosterrà la guerra in corso, la pace non sarà possibile. Significativo è un recente sondaggio del Pew Research Center in Russia: in dieci anni i sentimenti anti-americani sono cresciuti dal 32% al 71% della popolazione.

Non aver ascoltato le avvertenze dell’ambasciatore Burns nel 2008 è costato parecchio e costerebbe ancor più adesso. Nominato nel frattempo direttore della Cia, Burns, forte della sua comprovata arte diplomatica è stato di recente a Kiev per parlare chiaramente a Zelensky. (Sarebbe la rara volta in cui la Cia agisce per calmare le acque invece che pescare nel torbido).

È noto che i diplomatici vengono allenati a capire e a dosare le «ragioni dell’altro». Anche noi, che abbiamo un bagaglio diplomatico, auspichiamo che nel prossimo Vertice di Vilnius non siano adottate precipitose decisioni sul futuro status dell’Ucraina, che priverebbero il negoziato di un importante elemento di trattativa.

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