Verso l’auto elettrica senza freno a mano
Transizioni Secondo «Ecco», think tank italiano per il clima, il nostro paese sulle auto elettriche ha una posizione di retroguardia che mette a rischio il settore (e il lavoro)
Transizioni Secondo «Ecco», think tank italiano per il clima, il nostro paese sulle auto elettriche ha una posizione di retroguardia che mette a rischio il settore (e il lavoro)
Martedì 28 giugno l’Italia – rappresentata dal ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani – è arrivata con una posizione ambigua alla riunione del Consiglio Ue Ambiente che si è tenuta a Lussemburgo, che nell’ambito del pacchetto clima, il cosiddetto Fit for 55, ha votato anche la revisione del regolamento sulle emissioni auto e veicoli commerciali leggeri. Il punto di partenza era la proposta della Commissione votata l’8 giugno dal Parlamento europeo, che prevede una revisione del Regolamento sugli standard di emissione di CO2 per auto e veicoli commerciali leggeri e un obiettivo ambizioso: zero emissioni entro il 2035. Alla fine è stata approvata, apportando alcune modifiche peggiorative di cui il nostro Paese s’è fatto alfiere, insieme a Bulgaria, Romania e Slovacchia.
L’ITALIA, AD ESEMPIO, AVEVA CHIESTO una deroga per i «produttori di nicchia», quelli che costruiscono supercar ad altissime emissioni, come Ferrari o Lamborghini. Sempre il nostro Paese ha spinto con la Germania perché si possa valutare l’uso di combustibili (definiti) alternativi, quelli sintetici, il cui carattere dovrebbe essere una «neutralità tecnologica», per dirla con le parole di Cingolani.
SI TRATTA DI PICCOLE CREPE IN UNA decisione che anche gli osservatori più critici, come Veronica Aneris, direttrice di Transport & Environment in Italia, definiscono «storica». Agire sui trasporti è impellente: le emissioni di gas a effetto serra prodotte dal settore nell’Ue sono aumentate di oltre il 25% dal 1990 e rappresentano ormai il 30% delle emissioni totali di gas serra nei Paesi dell’Unione. Furgoni e automobili da soli rappresentano il 14,5% delle emissioni di CO2. Si tratta dell’unico settore dell’Ue in cui le emissioni di CO2 sono aumentate dal 1990 e per invertire la crisi climatica è necessaria una trasformazione radicale del settore.
RADICALITA’ CHE MAL SI SPOSA CON LA posizione espressa dall’Italia, che chiede di «stabilire periodi di transizione adeguati, che non creino costi sproporzionati e inutili sia per l’industria automobilistica che per i consumatori, pur essendo pienamente coerenti con gli obiettivi climatici dell’UE». Eppure il contesto sembrerebbe favorevole a una misura radicale: i prezzi dei combustibili fossili sono alle stelle, oltre due euro al litro alle stazioni di servizio, e in Europa è in corso una guerra che è finanziata dalle importazioni europee di petrolio dalla Russia, mentre la comunità scientifica avverte che con l’attuale livello di emissioni non rispetteremo gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima. Cosa serve di più?
«L’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA, con la sua dipendenza dal petrolio, è al centro di queste molteplici crisi», sintetizza Federico Spadini, che per Greenpeace Italia segue lacampagna trasporti di Greenpeace Italia. «Il governo italiano si è dimostrato troppo timido rispetto alla data di stop delle auto inquinanti. Ma rinviare la transizione non farà altro che aumentarne i costi sociali e ambientali: è ora che i governi europei si impegnino per una data molto più ambiziosa di quella in discussione, per il bene del Pianeta e di cittadine e cittadini europei».
UNA ANALISI DIFFUSA DA «ECCO», il think tank italiano per il clima, evidenzia tutti i limiti di una posizione di retroguardia da parte dell’Italia, che tra l’altro andrebbero a mettere a rischio anche la tenuta di un settore produttivo presente nel Paese e già in estremo ritardo sulla transizione. Secondo ECCO, la proposta europea che fissa un termine per l’elettrificazione del parco veicoli europeo sarebbe «garanzia di un più rapido spostamento dell’offerta di mercato verso auto elettriche di piccole dimensioni, più economiche ed efficienti nei consumi, le utilitarie su cui l’Italia ha costruito la sua storia di successo. Garanzia che, grazie all’incremento dei volumi di produzione attesi, si estende anche all’opportunità di creare nuovo valore nella filiera automotive nazionale, nonché a un ridimensionamento degli intrinseci rischi occupazionali».
«ECCO» RICORDA CHE OGNI ALTRO aggiornamento legislativo sul tema delle emissioni di CO2 dei veicoli stradali leggeri è stato accompagnato da forti opposizioni, prevalentemente da parte dei costruttori, contrari a norme troppo stringenti, ma che solo l’introduzione di obblighi vincolanti ha portato tutti i principali costruttori europei a implementare misure di efficienza e allinearsi con gli obiettivi previsti. Oggi, però, il bilancio è «drasticamente diverso: alcuni attori importanti sostengono il piano di transizione verso l’elettrico, sia nei tempi che nei modi. Non da ultimo, si sono espresse favorevolmente sia Volkswagen che Mercedes, sostenendo che l’obiettivo sia ambizioso ma raggiungibile. In precedenza altre case costruttrici, tra cui Ford e Volvo, avevano espresso pubblicamente posizioni ancora più nette in favore di questa prospettiva.
LA STESSA STELLANTIS (il gruppo di cui fa parte Fiat, ndr) si dichiara pronta alla produzione di sole auto elettriche in Europa già a partire dal 2030». Anche il mondo del lavoro e delle rappresentanze sindacali è consapevole dell’irreversibilità della sfida e chiede un tavolo di confronto per la definizione di una strategia condivisa.
«ABBIAMO IMPIANTI PER PRODURRE 2 milioni di auto all’anno ma dalle fabbriche ne escono 400 mila, non è puntando i piedi per rallentare un processo che si fa mantenere competitivo un settore» ha detto il segretario Fiom Michele De Palma intervistato da L’Essenziale del 25 giugno. «L’Italia – suggerisce l’analisi di ECCO – deve scegliere da che parte stare e gestire la transizione in modo ordinato. È una questione di volontà politica e di messa in atto di piani industriali e sociali che guidino la trasformazioni invece di rimanere neutrali. La «neutralità tecnologica» non esiste perché le tecnologie partono da stadi di maturazione e penetrazione nel mercato molto diversi. L’Italia dovrebbe puntare dove è più carente rispetto ai competitor, ovvero sulla filiera della mobilità elettrica, e accelerare la trasformazione delle filiere dove è più esposta, come sulla tecnologia dei motori endotermici. Invece, stiamo assistendo a spinte che muovono esattamente in direzione opposta. Essere neutrali oggi significa togliere una chance di futuro all’occupazione più esposta al cambiamento tecnologico a favore di tecnologie superate che già in una prospettiva a breve e medio termine vedranno ridursi le opportunità di mercato».
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