Dice bene Stefano Feltri quando nota sul suo quotidiano Domani: se la misura del successo è la crisi dell’economia russa, allora le sanzioni stanno funzionando. I segnali in effetti non mancano.

C’è prima di tutto il deficit del 2 per cento nel bilancio federale del 2022. C’è l’inflazione oltre il 15 per cento con i tassi di interesse all’8 per cento. C’è la crisi di comparti industriali importanti come quello dell’auto, passato dall’inizio della guerra da centomila a ventisettemila modelli prodotti ogni mese.

C’è, infine, un documento del governo russo pubblicato martedì dal network internazionale Bloomberg con previsioni severe per i prossimi tempi. Il blocco totale dell’import può riportare indietro di cent’anni il settore farmaceutico, l’aviazione civile, le telecomunicazioni, l’allevamento e l’agricoltura, e questa nuova realtà può spingere duecentomila specialisti dell’Information Technology a lasciare il paese.

È fondamentale, però, chiedersi quale sia e quale sarà l’impatto delle sanzioni sulla guerra in Ucraina, perché in fin dei conti dovrebbe essere quella la misura con cui valutare la risposta che gli Stati uniti, la Gran Bretagna e l’Unione europea hanno adottato sino a questo momento. Evitare la questione significa accettare senza obiezioni la possibilità di una guerra lunga e tutti i pericoli legati a una escalation, anche quello, sempre più presente nel dibattito pubblico, di un confronto con armi nucleari, in cambio di generici danni alla struttura economica russa.

Quando sono state approvate, le sanzioni avevano due grossi obiettivi. Per prima cosa avrebbero dovuto generare nel breve periodo una crisi di liquidità in grado di fermare l’invasione. Dopodiché avrebbero dovuto colpire la capacità produttiva del paese per rendere meno probabili altre sortite nel medio termine.

A sei mesi abbondanti dall’offensiva su Kiev, su Odessa e su Kharkiv, con le truppe russe ormai assestate nel Donbass e nella parte meridionale dell’Ucraina, si deve ammettere con franchezza che il primo obiettivo le sanzioni lo abbiamo mancato.

La flessibilità mostrata dalla Russia in campo monetario, economico e militare fa temere che anche il secondo possa fallire. La Banca centrale ha impedito il collasso del rublo ed è riuscita a imporre un nuovo sistema di pagamento basato sulla valuta nazionale prima ai paesi europei, poi a due grandi partner come Cina e Turchia. Fra pochi giorni il capo del Cremlino, Vladimir Putin, vedrà in Uzbekistan proprio il leader cinese, Xi Jinping, per chiudere un’intesa sulle enormi scorte di gas che le società di stato non venderanno più in Europa.

Sempre Putin ha firmato giorni fa un decreto per aumentare di oltre centomila unità gli effettivi delle forze armate, con il ministero della Difesa deciso ad allargare la cooperazione con Iran e Corea del Nord per produrre droni e munizioni.

La Russia ha problemi economici, questo è chiaro, ma non sono tali da ridurre le sue mire. Verificare il rapporto fra le sanzioni e la guerra andrebbe considerato un atto di buon senso, non di tradimento. E con la stessa misura l’Europa dovrebbe valutare l’efficacia delle due iniziative senza le quali le sanzioni perdono significato: quella militare, che nelle ultime settimane sembra scemata, e soprattutto quella diplomatica, lasciata completamente al presidente turco, Receep Tayyp Erdogan.

Fermare la guerra è la priorità. In questo il tempo è un fattore determinante. Con ogni probabilità fra dicembre e gennaio la maggior parte dei governi europei, compreso quello italiano, saranno alle prese con una grave crisi energetica e con le sue ripercussioni sul piano economico, politico e anche sociale. A quel punto avrà poco senso incolpare Putin o denunciare influenza straniere.