Vasilij Grossman, inviato per l’Armata rossa
Scrittori russi In «Stalingrado», di cui «Vita e destino» è la continuazione, Vasilij Grossman descrive una Ucraina solcata dai profughi, prima di immergersi nell’ipnosi della battaglia: da Adelphi
Per l’intera loro vita alcuni scrittori ruotano ossessivamente intorno a un unico tema, come falene attratte irresistibilmente da una luce. Il leitmotiv pressoché esclusivo di Vasilij Grossman, fonte di illuminazioni, ma anche di brucianti delusioni, fu la battaglia di Stalingrado, cui assistette in qualità di corrispondente per il giornale dell’Armata Rossa «Krasnaja zvezda». Che quell’epico scontro fosse stato cruciale per l’evolversi della sua sensibilità lo testimonia anzitutto la miriade di prospettive da cui lo raffigurò nel corso dei decenni. Se nei laconici eppure incisivi resoconti dal fronte prevale lo sguardo attonito di chi contempla gli eventi in presa diretta, senza poterne prevedere l’esito, nel racconto «La strada», scritto nel 1963, è un mulo dell’esercito italiano a «parlarci» di Stalingrado dal suo ipotetico punto di vista. Rifacendosi alla novella Cholstomer in cui Lev Tolstoj, a suo tempo, aveva dato voce a un cavallo, lo scrittore di origini ebraiche, nato in Ucraina nel 1905, rendeva esplicito il proprio debito di riconoscenza nei confronti dell’autore di Guerra e pace, l’unico romanzo che era stato in grado di rileggere durante il conflitto.
D’altronde, Grossman aveva già assunto Tolstoj a suo nume tutelare negli anni Cinquanta, nel corso della stesura di quello che sarebbe diventato il suo capolavoro, Vita e destino. Qui le icastiche descrizioni dei suoi reportage bellici si dilatano in una autentica narrazione epica; a Stalingrado, teatro della battaglia decisiva per le sorti della guerra, convergono e s’intrecciano i destini di personaggi che, a volte, sembrano controfigure sovietiche di Pierre Bezuchov o Nikolaj Rostov, temprate nel fuoco del materialismo dialettico. Tuttavia, la scarsa ortodossia politica del testo, che si spingeva ad abbozzare un «sacrilego» raffronto a posteriori fra nazismo e stalinismo, portò all’estromissione dello scrittore dalla scena letteraria; tant’è vero che il manoscritto di Vita e destino, confiscato dal Kgb nel 1961, venne pubblicato solo nel 1980 da L’Âge d’homme a Losanna, dopo esser stato trafugato rocambolescamente in Occidente sotto forma di microfilm.
Versione aggiornata
Se questa operazione editoriale, ancorché tardiva, ha restituito a Grossman il posto che gli spetta della letteratura russa del Novecento, un’altra pagina è rimasta fino a pochi anni fa nell’ombra, e cioè quel romanzo, sempre centrato su Stalingrado, di cui Vita e destino costituiva in realtà la seconda parte e che l’autore era riuscito a dare alle stampe nel 1952, a costo di innumerevoli compromessi con la censura. Sbrigativamente liquidato dalla critica occidentale come troppo accondiscendente verso l’estetica del realismo socialista, Per una giusta causa (questo il titolo imposto all’epoca dai redattori della rivista «Novyj mir») è riemerso nel 2019 in una inedita, smagliante versione grazie all’abilità filologica del traduttore inglese Robert Chandler, che ne ha collazionato il testo con una precedente stesura, incompleta, ma decisamente più vivace e «sincera» di quella andata in stampa. Il risultato è una variante più vicina all’intenzione autoriale, cui è stato restituito anche il titolo voluto da Grossman, Stalingrado, e che ora viene proposta da Adelphi nella traduzione efficace di Claudia Zonghetti (a cura di Robert Chandler e Jurij Bit-Junan, pp. 884, € 28,00).
Il frangente in cui appare oggi questo testo ne rende fatalmente diversa la ricezione rispetto a quella che sarebbe potuta essere anche solo pochi mesi fa. Epopea di una guerra terribile ma «giusta», la dilogia di Grossman ricostruita nella sua interezza non può che entrare in risonanza con le cronache odierne che riferiscono di un conflitto terribile e ingiusto. Il teatro delle operazioni è, in parte, lo stesso, e, prima di focalizzarsi su Stalingrado, destinata a diventare lo sfondo «di una difesa di posizione senza eguali nella storia del mondo», l’autore ci mostra la precipitosa ritirata delle truppe sovietiche nell’autunno del 1941 attraverso tutta la sua terra natale, fino al Don.
Delle miniere del Donbass, dove si estrae giorno e notte per sostenere lo sforzo bellico, alla «piccola città verde e tranquilla» in cui vive la madre di uno dei protagonisti, passando per Kiev, da cui giungono voci ritenute folli e inverosimili sullo sterminio degli ebrei a Babij Jar’, l’Ucraina di queste pagine è una immensa distesa calpestata dagli eserciti, solcata da convogli di profughi che «si sciolgono nella vastità di quel movimento lento fra nuvole di polvere gialla, nel calore rovente della steppa grigio-azzurra». Un paese dove, osserva l’autore, può capitare di affezionarsi indicibilmente anche al luogo più insignificante, se «per venti lunghi minuti» non vi accade «nulla di brutto».
Grossman si spinge perfino a sfiorare temi tabù come il risentimento, se non l’odio verso le autorità sovietiche indotto nelle campagne ucraine dai disastri della collettivizzazione forzata dei primi anni Trenta. Per cui, finanche di fronte all’avanzata delle armate naziste, c’è chi si dimostra possibilista e sta alla finestra, ripetendo fra sé: «Quello che è stato è stato, vediamo che cosa sarà».
Lontano da ogni nazionalismo
Visceralmente estraneo agli opposti nazionalismi – russo e ucraino – che dettano la tragedia dell’oggi, Grossman è figlio delle macerie dell’utopia internazionalista smantellata da Stalin nei primi anni Trenta: dal suo punto di vista, dopo l’increscioso e fallimentare episodio del patto di non aggressione siglato da Molotov e Ribbentrop, tanto più è necessario che il socialismo realizzato concretamente in un solo paese sappia almeno respingere la barbarie nazista. Stalingrado si regge tutto sulla consapevolezza retrospettiva di questo assunto e sulla necessità di una guerra di liberazione, le cui fortune Grossman affidava alla rilettura che lo stesso Stalin, in un lampo di genialità, aveva fornito del mito greco di Anteo. Se il leggendario gigante era in grado di raddoppiare il suo slancio a ogni passo, col suo emulo Hitler ci si trovava davanti piuttosto a «un anti-Anteo, un gigante fasullo, finto. Quando questo finto Anteo avanza sulla terra che vorrebbe conquistare, la sua forza non aumenta a ogni passo come capita al vero Anteo, ma diminuisce. Non è lui che assorbe forza dalla terra, ma è la terra a lui ostile, che gliela sottrae finché, stremato, si schianterà al suolo».
Uscita sempre vincitrice da guerre «patriottiche» di difesa e liberazione – quella contro Napoleone del 1812, così come quella che l’ha opposta a Hitler – la Russia di Putin si è imbarcata oggi in un conflitto di pura aggressione, in cui sta tragicamente figurando nei panni dell’anti-Anteo grossmaniano. Ma non è l’unico vertiginoso rovesciamento di prospettiva che la riscoperta di questo testo propone. Immergendosi in quello che, a tutti gli effetti, è un prequel di Vita e destino, il lettore ne ritrova gli stessi personaggi, «congelati» in un fermo immagine antecedente al precipitare degli eventi, ovvero all’assedio della città su Volga.
Che Stalingrado fosse lì lì per essere investita dall’offensiva della 6ªArmata del generale Paulus nell’estate 1942 non era un mistero per nessuno, soprattutto dopo l’ordine di Stalin del 28 luglio che intimava alle sue truppe «mai più un passo indietro». Nell’ottica appassionatamente analitica di Grossman, l’approssimarsi della catastrofe si dilata fino ad abbracciare l’intera parte prima di Stalingrado, magistralmente costruita ad anello intorno alla figura del kolchoziano Petr Vavilov, recluta a quarantacinque anni, costretto dai folli piani di Hitler ad abbandonare i suoi campi e il tepore della sua isba: «vuole tutta la gleba terrestre da arare, lui».
Alla logica contadina di questo erede del Platon Karataev di Guerra e pace, che vede il globo sub specie di un’enorme zolla di terra da coltivare e amare, l’autore contrappone l’intricato plot urbano, orchestrato intorno alla famiglia Saposnikov e ulteriormente amplificato da tre lunghi flashback paralleli che consentono di tornare ai primi mesi di guerra nella percezione dei tre principali personaggi maschili del romanzo: l’ex marito di Zenja Saposnikova, l’inflessibile commissario politico Nikolaj Krymov, il colonnello Petr Novikov, perdutamente innamorato di Zenja, e lo svampito fisico teorico Viktor Strum.
È proprio a lui che Grossman attribuirà, se non le sue esperienze di testimone oculare al fronte (ripartite piuttosto tra Krymov e Novikov), uno degli eventi certamente più traumatici della propria biografia: la madre di Strum, esattamente come quella dello scrittore, prima di morire nel ghetto di una cittadina ucraina, riesce a far pervenire al figlio un’ultima lettera il cui contenuto resta taciuto per tutto il romanzo – troppo rischioso era nei primi anni Cinquanta ricordare il genocidio della popolazione ebraico-sovietica. Da Stalingrado la missiva della madre di Strum, finalmente «letta», trasmigrerà poi in Vita e destino a conferma non solo dell’indissolubile legame tra i due testi, ma anche del fatto che Grossman li aveva concepiti come un unico, immenso diorama, esigendo dal lettore una visione a tutto campo capace di abbracciare simultaneamente tanto l’orizzonte epico della Storia, quanto il ciclico riaffiorare di piccoli, commoventi dettagli.
Non poche pagine esibiscono una vera e propria «vertigine della lista»: attraverso la compilazione spasmodica di cataloghi di armate e combattenti, così come di modesti oggetti quotidiani, Grossman allude alla fragilità di un mondo – il proprio – che è stato sul punto di soccombere. Ancora più che Vita e destino, Stalingrado sembra inscenare il dissidio fra astrazione e realtà, fra gli spostamenti di truppe riportati sulle carte e la polvere delle strade solcate dagli eserciti in ritirata – un tema centrale anche in Guerra e pace.
Essere quel «Tolstoj rosso» che i critici auspicavano già a conflitto in corso, pur avendo vissuto sulla propria pelle quanto più di vicino c’era stato al tracollo del 1812, e quindi sapendo di non poter aspirare né alla perfezione stilistica, né al distacco olimpico del conte di Jasnaja Poljana – questo fu l’ingrato compito che Grossman, scrittore coraggioso come pochi, si accollò. Come una falena ipnotizzata per il resto della vita da Stalingrado, non poteva fare a meno di cercare di riferire agli altri quanto aveva visto.
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