Van Gogh, 1888-’89, il teatro della propria pittura
Il solito Van Gogh!… ecco cosa pensavo mentre entravo alla National Gallery, all’inaugurazione della super-mostra dedicata al mostro sacro della pittura, convinto che ci sarebbe stato poco da stupirsi – ma non è andata affatto così, perché Van Gogh, ogni volta e anche stavolta, non può che lasciare senza fiato. D’altronde al museo londinese, che quest’anno festeggia i suoi duecento anni, e ora azzoppato per la chiusura della Sainsbury Wing, non avevano mai dedicato una retrospettiva al pittore e la linea scelta, a partire dai dipinti presenti in collezione, sembra a tutti gli effetti vincere la scommessa.
Le opere esposte sono tutte eseguite nel biennio decisivo 1888-’89, e si possono seriare praticamente mese per mese, fra Arles e Saint-Rémy, come a seguire passo dopo passo gli scombussolamenti e le traversie di una ricerca artistica nel suo tratto più inquieto. È nel maggio del 1889 che l’artista sceglie di ricoverarsi nella casa di cura di Saint-Rémy, quando gli abitanti di Arles ormai denunciavano i suoi comportamenti; poi arriverà il passaggio a Auvers e il suicidio – ma questo è stato oggetto di un’altra mostra recente, Parigi-Amsterdam, recensita per «Alias-D» da Giuseppe Frangi il 28 gennaio 2024, che non si sovrappone in alcun modo a questa di Londra.
Nelle sale della National, giustamente, non si segue troppo da vicino quella vita destinata a spegnersi poco dopo, si privilegiano confronti fra dipinti che lasciano emergere più il dato artistico che quello biografico. I singoli affondi sulle opere, alcune davvero poco viste, vanno a illuminare versanti meno noti e finiscono per costruire nuovi reticoli di nessi.
Si parte dai due ritratti riprodotti in questa pagina, che servono anche per costruire il sottotitolo della mostra: Poets and Lovers (a cura di Cornelia Homburg, con Christopher Riopelle, chiuderà il 19 gennaio, catalogo pp. 255, £ 40,00). Il «poeta», ossia Eugène Boch (Orsay), sta quindi a fianco dell’«amante», che è il luogotenente Milliet, con tanto di uniforme e semplicità militaresca, e questo secondo quadro viene dal Kröller-Müller di Otterlo, museo particolarmente generoso nei prestiti. «Vorrei fare il ritratto di un amico artista che fa grandi sogni», ma per farlo davvero, scrive Vincent al fratello Theo, deve cedere all’arbitrarietà del colore, il biondo virerà verso l’arancio o il limone e la notte alle sue spalle sarà così ricca e intensa che sembrerà di dipingere l’infinito. Questa nuova sicurezza sulle possibilità del colore rappresenta un primo balzo in avanti che si compie pienamente non appena il pittore approda ad Arles.
La scoperta del paesaggio provenzale si accompagna a un’accensione fiammante, continua, di uomini e campi, zeppi di rosso o di viola, come a voler immediatamente denunciare che si è entrati in un nuovo e vorticoso orizzonte di azione. In una certa misura contano qualcosa le ultime critiche che venivano da Parigi, seriamente somatizzate da Vincent, in particolare quelle pronunciate da Gustave Kahn sulla «Revue indépendente». Contrapposto a Seurat, Van Gogh era considerato un «pennello vigoroso», poco propenso alle sottigliezze che ormai convincevano i pochi che sostenevano impressionisti e post-impressionisti. Così prende corpo l’idea, ribadita in più lettere, di dedicarsi a una «decorazione», dove il tema dominante è giocare a più non posso con i contrasti cromatici, fino a fare della celebre casa gialla di Arles un piccolo teatro della propria pittura.
Sembra un modo per addomesticare, con le parole, quel che si sente. I girasoli – e in mostra il dipinto della National Gallery è accanto a quello di Philadelphia –, insieme alla Berceuse venuta da Boston compongono un trittico che Vincent propone a Theo con un disegno: il senso dell’operazione, con l’accostamento, è far risaltare i gialli e gli arancioni della testa della donna. Al Salon des Indépendents del 1889, però, l’allestimento prenderà un’altra piega. Fanno la loro apparizione la Notte stellata sul Rodano (sempre da Orsay) e Il giardino del poeta (a Chicago, ma non presente), due quadri meno potenti, forse proprio per evitare che si continuassero a spargere voci su quel pittore burrascoso che si stava autoesiliando a sud.
Inizialmente, in realtà, Vincent aveva creduto di riconnettersi, lì, con una comunità ideale: «qui, sotto il sole cocente, ho trovato quello che Pissarro diceva fosse vero, e anche Gauguin mi aveva scritto, la stessa cosa. La semplicità, le schiarite, la solennità dei grandi effetti della luce del sole» (ottobre ’88, a Theo). Erano i giorni in cui Vincent esplorava i giardini di Arles – uno dei quadri più belli è di una collezione privata: gli oggetti che dipingeva gli sembravano imbrigliati, per l’ultima volta, con il mondo reale; semmai il difficile era definire fino a che limite ci si potesse spingere, nella definizione dei blu più cupi. I luoghi non avevano nulla di speciale, scriveva Vincent a Gauguin, ma ci si poteva divertire a immaginare coppie di amanti dentro quei giardini. E poi in Provenza c’erano i ‘tipi’, come la Arlésienne, o i Campi Elisi vicino la cittadina, e si poteva anche propendere per agguantare il filo del folklore, un po’ come aveva fatto l’amico con Pont-Aven e la Bretagna.
Anche in un dipinto come quello venuto da Atene, la quiete del vivere di provincia trasforma la necropoli romana in quadretto romantico, con un trionfo di cipressi gialli a staccare sul verde acqua del cielo. Si poteva però percorrere molta strada nel giro di poco tempo, se si prende per esempio Il ponte di Trinquetaille: è un quadro dove la vita e il vociare dei passanti ancora prevalgono su tutto il resto, nonostante il cielo sia «color dell’assenzio», come Van Gogh ci spiega in un’altra lettera. C’è insomma, in molti di questi quadri dipinti ad Arles, il desiderio di conciliarsi con gli altri – forse degli altri non ben definiti… Gauguin, il pubblico, il mondo, gli stessi arlésiennes –, ma la vera ebbrezza della pittura arriva solo quando quest’illusione si spegne.
Uno degli aspetti più convincenti della mostra è infatti di aver radunato, da enti prestatori spesso fuori dalle rotte, parecchi volti, disegni, dipinti e paesaggi dove prevale questa testardaggine, dove si afferma, con sofferenza ma senza inibizioni, che il corso della propria pittura segue una rotta tutta libera. Così i colpi di rosso dei quadri dipinti all’ospedale di Saint-Rémy staccano dalle striature di fondo azzurre e gialle fino a isolare un albero mozzato, fino a dichiarare del tutto che sta lì un nuovo senso del dipingere. Questo accade nell’olio di Essen, probabilmente il quadro più bello in mostra, che Van Gogh descrive accuratamente in una lettera a Émile Bernard del novembre ’89: «Capirai che questa combinazione di rosso-ocra, di verde intristito con grigio, di linee nere che definiscono i contorni, possa rendere in qualche misura il senso di ansia che alcuni dei miei compagni di sventura spesso soffrono, e che è chiamato ‘vedere rosso’. E in più, il motivo del grande albero colpito dal fulmine, il sorriso verde acido e rosa dell’ultimo fiore di autunno, confermano quest’idea».
Ecco un’altra comunità che appariva all’orizzonte, ma quasi una controparte pacificata di questo dipinto è una tela che proviene dall’Hammer Museum di Los Angeles, a dimostrazione che lo stesso luogo dove si andava a passeggiare ogni giorno si poteva pur sempre intorpidire con un’atmosfera bonaria, come se fosse un ordinario giardino pubblico. Oppure per chiudere, in un altro quadro che viene da Otterlo, l’ospedale ci appare come un paradiso perduto ancora in fiore: non era ancora arrivato l’inverno.
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