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Valeria Sarmiento, ritorno a Valparaíso

Valeria Sarmiento, ritorno a ValparaísoDa «Un sueño como de colores»

Intervista La regista cilena è ospite del «Pordenone Docs Fest – Le voci dell'inchiesta», dal 10 al 14 giugno 2023

Pubblicato più di un anno faEdizione del 3 giugno 2023

Regista e montatrice cilena, oltre che collaboratrice e compagna di vita del compianto Raúl Ruiz, Valeria Sarmiento, graditissima ospite del «Pordenone Docs Fest – Le voci dell’inchiesta», festival organizzato da Cinemazero . Presidentessa della giuria del concorso, la cineasta ha anche presentato tre opere da lei realizzate fra gli anni ’70 e gli ’80 che si focalizzano sulla condizione femminile nell’America Latina dell’epoca.

Ha studiato cinema e filosofia all’Università di Valparaiso durante il periodo dell’Unità Popolare ma, nonostante il momento storico, il suo primo film «Un sueño como de colores» del 1972 ha avuto grandi difficoltà ad essere finanziato. Come lo ha realizzato?
Ho girato il film dopo aver lavorato alla produzione di Nadie dijo nada, un lungometraggio di Raúl Ruiz realizzato all’epoca in coproduzione con la Rai. Raul aveva «risparmiato» un po’ di pellicola ed è stato questo che ha permesso che il film si realizzasse. Mi feci aiutare dagli amici della scuola di cinema che stavo frequentando.

Sempre su «Un sueño como de colores», il film racconta la vita difficile di alcune strip girls in Cile ma sembra voler fotografare anche una sorta di ambiguità tra queste donne, che si vendono come oggetti sessuali e che poi «comprano» benessere e libertà attraverso la loro professione. Può dirci qualcosa in più?
All’epoca, la notte a Santiago era molto festosa e accompagnavo gli amici a far festa nei locali notturni. Osservavo queste donne che facevano spogliarelli e volevo saperne di più su questo mondo. Questo è stato il punto di partenza del film. A quel tempo il mio interesse per il mondo delle donne era non convenzionale, bizzarro, se possiamo definirlo così.

Cosa significava essere un regista donna all’epoca dell’Up? Qual è stato il suo rapporto con altre importanti registe cilene come Marilú Mallet e Angelina Vásquez?
Con Angelina e Marilú abbiamo presentato tanti progetti insieme, ma se per i maschi è stato difficile trovare interlocutori, per noi lo è stato ancora di più. La nostra preoccupazione per la condizione della donna in Cile faceva ridere produttori e funzionari che, a un certo punto, ci dissero: «Prima c’è la rivoluzione, delle vostre preoccupazioni ci occuperemo dopo».

Nel 1974 lei e suo marito Raul vi siete stabiliti in Francia e, due anni dopo, lei ha realizzato il suo primo film in esilio, «La dueña de casa», prodotto dal Grec (Groupe de Recherches et Film Essays) creato nel 1969 da Jean Rouch.
Il Grec ha aiutato tanto i giovani registi che erano alle prime armi. Ho presentato il progetto, l’hanno accettato e mi hanno dato dei soldi e, ancora una volta, ho girato grazie all’aiuto di alcuni amici. Poi, negli anni successivi, mi sono più occupata del mio lavoro di montatrice, non solo per i film di Raúl ma anche per registi come Luc Moullet e Robert Kramer.

Purtroppo, anche «La dueña de casa» non ha avuto all’epoca la diffusione che avrebbe meritato. Rivedendolo, ho pensato che la motivazione forse sta nel fatto che si tratta di un film che utilizza innovazioni formali – un film fittizio girato quasi come un documentario – per creare ed esprimere una prospettiva politica, raccontando la storia, non così fittizia, di una donna benestante e della sua afflizione per l’avanzata dell’Unità Popolare.
Ricordo queste donne che ho conosciuto in Cile prima di andare in esilio. Volevo lasciare una testimonianza, una traccia del loro comportamento durante l’epoca Allende. Questo film non aveva altre pretese.

Il terzo film proiettato a Pordenone è «El hombre cuando es hombre», realizzato nel 1982. Penso che il documentario sia straordinario nel voler accostare ironia, tensione, umorismo e brutalità. Il film venne prodotto dalla tv tedesca, come mai? E perché venne girato in Costa Rica?
All’epoca presentai tre progetti alla Zdf, due vennero rifiutati da chi aveva potere decisionale perché pensavano volessi fare film soltanto perché mio marito era un cineasta. Dopo molte insistenze hanno accettato il terzo progetto. Credo che questo documentario avrei potuto girarlo in qualunque paese dell’America Latina, ma soltanto il Costa Rica mi ha dato il visto, gli altri paesi non volevano far entrare i cileni.

Mi hanno anche molto colpito le sequenze musicali alternate alle parole degli uxoricidi. Come ha composto la struttura narrativa del film? L’impressione è che sia un film che si concentra sul problema della donna ma attraverso il filtro degli uomini. Per questo ho pensato che in tutto il suo cinema si cerchi sempre di affrontare questioni importanti da un punto di vista obliquo, diagonale. Qualcosa che del resto faceva anche Raúl.
Volevo fare un film sul machismo, ma non volevo mostrare donne che piangono il proprio destino. Ho pensato che fosse più interessante mostrare il maschilismo in tutto il suo splendore e la sua finta grandiosità. Non a caso El rei, una delle canzoni che vengono eseguite nel film era la preferita di Pinochet. Non è stato semplice realizzare quel film, specialmente intervistare gli uomini in carcere condannati per aver ucciso le loro mogli. Ho dovuto dire una bugia e dichiarare che avrei fatto un film sul romanticismo sudamericano.

Un’altra cosa che mi ha colpito molto sono le scene cantate con i mariachi. Sembra quasi una messa in scena da musical hollywoodiano degli anni ’50.
Nella mia infanzia, a Valparaíso, veniva distributo il miglior cinema americano (soprattutto quello dei cineasti europei che lavoravano negli Stati Uniti) e l’eccellente cinema europeo. Quindi la mia formazione deve molto di più a queste visioni che alla scuola di cinema.

Dopo «El hombre cuando es hombre», ha quasi abbandonato la forma del documentario per dedicarti alla fiction…
Sì ma ho girato successivamente due documentari a Cuba e un altro sempre in Costa Rica. C’è un documentario che mi sta molto a cuore e si chiama El planeta de los niños sull’educazione «politica» dei bambini a Cuba. Anche questo l’ho realizzato, nel 1992, per la Zdf. Ma, come sottolineavi prima, ho girato poi altre pellicole che mescolano fiction a elementi documentaristici. Ad esempio Secretos, un film del 2008 che racconta il mio Cile. Per la stesura della sceneggiatura, avevo raccolto alcuni articoli di cronaca nera che leggevo in aereo ogni volta che andavo a trovare la mia famiglia. E il film infatti è quasi una black comedy.

Cosa puoi dirci del tuo nuovo progetto?
Il film si chiama Detrás de la lluvia e stiamo ancora cercando i finanziamenti. È un lungometraggio legato ai miei ricordi d’infanzia a Valparaíso. E il titolo del film ha qualcosa a che fare con i primi ricordi di quando andavo al cinema da bambina con i miei genitori. Abbiamo visto così tante pellicole rovinate e graffiate che era come osservare cadere la pioggia sullo schermo.

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