Visioni

Valentina Pedicini, nel mondo della fede

Valentina Pedicini, nel mondo della fedeValentina Pedicini

Berlinale 70 Parla la regista di «Faith», alla Critic’s Week, ambientato in una comunità chiusa al mondo esterno. «Abbiamo scelto di affrontare una realtà così dura, radicale e piena di regole vivendola realmente e trascorrendo cinque mesi insieme ai protagonisti»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 29 febbraio 2020

Dalle viscere della terra di Dal profondo all’«oscurità» in cui si sono rinchiusi i «Monaci guerrieri», una comunità di esperti di arti marziali che hanno fatto la scelta radicale di chiudersi al mondo esterno, di condividere la loro «battaglia contro il male», guidata da quello che tutti chiamano il maestro, in un casale in cui vivono tutti insieme, allenandosi quotidianamente e rispettando regole ferree – fra cui l’assenza di elementi della modernità come cellulari, televisioni, internet. Con Faith (presentato alla Critics’ Week che si svolge parallelamente alla Berlinale) Valentina Pedicini torna al documentario per raccontare senza preconcetti – «da parte mia c’è un grande amore, un grandissimo tentativo di non giudicare» – una comunità, i suoi rituali, la sua incrollabile e disturbante adesione ad un ideale. A partire da Laura, una delle prime ad essere entrata in questo mondo parallelo e sul cui corpo continuamente messo alla prova sembra gravare l’intero peso della fede dei protagonisti. «Laura – racconta Pedicini – è il motivo per cui ho fatto Faith. Undici anni fa ho realizzato un corto su di lei dopo averla incontrata per caso: ho visto per strada una sua esibizione di kung fu e mi sono innamorata del suo personaggio. Il corto era incentrato sulla dimensione sportiva della sua vita – è una campionessa di arti marziali – ma poi seguendola sono entrata in contatto con la palestra di kung fu in cui si allenava e con la comunità che vediamo nel film, che a quei tempi si stava formando».

Perché dopo 11 anni ha deciso di tornare a filmarli?

All’epoca non mi sentivo pronta per affrontare una storia così grande. Poi quando sono tornata da loro mi sono chiesta se fare di nuovo un ritratto di Laura o l’affresco di una realtà che mi permetteva di raccontare il meccanismo della fede e della fiducia incondizionata in qualcosa. Così ho scelto di includere nel film tutti loro, o meglio quei personaggi di cui seguiamo le storie, che sono ciò che è letteralmente accaduto sotto i nostri occhi nei cinque mesi che abbiamo trascorso nella comunità, e mi sembrava molto interessante mostrare le loro evoluzioni.

Che rapporto ha instaurato con i protagonisti?

Aver già girato un corto insieme a loro è stata una grande chiave di accesso: da allora non hanno più fatto entrare le telecamere all’interno della comunità e il mio ritorno è stato accolto in un certo senso come il completamento di un percorso. L’altra chiave è stato il tempo trascorso lì dentro: la scelta di affrontare una realtà così dura, radicale, piena di regole, vivendole realmente e non in modo superficiale, da reportage televisivo.

Come in «Dal profondo» si tratta di una comunità in qualche modo isolata dal mondo esterno.

È una cosa che ho realizzato alla fine del montaggio di Faith, che in qualche modo è Dal profondo in versione «psichica». Sono ossessionata dai posti chiusi, dai luoghi di resistenza – in positivo o in negativo. Nel caso di Dal profondo si trattava degli ultimi minatori italiani che cercavano di combattere per salvare il proprio mondo, in quello di Faith di ventidue persone che si autoescludono dal mondo esterno per quello che ritengono un bene superiore.

Il film raramente lascia l’interno del casale in cui vivono i «monaci». Ma anche quando lo fa sembra di essere ancora in una dimensione opprimente.

Abbiamo usato delle ottiche degli anni sessanta che quando si gira in esterni creano una specie di oblò, dando una sensazione di chiusura. In fase di montaggio abbiamo «affidato» gli esterni quasi esclusivamente ai bambini (i due figli di una ragazza che con il compagno vive nella comunità, ndr): erano loro a portarci fuori da quella dimensione.

E come mai ha girato in bianco e nero?

Abbiamo fatto questa scelta con il direttore della fotografia dopo un paio di settimane trascorse nella comunità. Ma non volevo che risultasse una scelta puramente estetica, un rischio che si corre con il bianco e nero a causa del suo grande fascino. La decisione nasce dal desiderio di essere il più rigorosi possibile, così come i protagonisti, che hanno fatto una scelta monocromatica: si vestono tutti di bianco perché è il simbolo della purezza, mentre il mondo fuori è nero, simbolo del male che avanza. In questo senso mi sembrava che il bianco e nero fosse una chiave ulteriore per entrare dentro la loro scelta. Inoltre volevo che il film non avesse una connotazione di tempo e di spazio: si svolge in Italia nel 2020 – ed è interessante che sia proprio il nostro paese oggi – ma loro, avendo scelto di chiudersi al mondo esterno, vivono in una dimensione quasi atemporale. Ed infine è un film sulla fede ma sta molto sui corpi dei protagonisti: il bianco e nero consentiva di allontanare molte distrazioni e restare sui visi, i corpi, il sudore, l’allenamento.

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