Non sappiamo se Dio ha protetto Trump per farlo diventare presidente, o se lo ha salvato per permettergli di non morire da peccatore e dargli il tempo di cambiare la sua vita. Quale che sia l’ipotesi più probabile, che nessuna inchiesta potrà mai verificare, tre sono i fatti incontestabili: Crooks non ha mirato all’orecchio destro di Trump, Trump è stato colpito nella parte del corpo meno debilitante in assoluto, polizia e servizi segreti hanno ucciso l’attentatore, ma solo dopo non avere protetto il bersaglio dell’attentato. Troppe imperfezioni, perché sia una cospirazione, perché non si tratti di realtà vera. In altri tempi e luoghi, roba da ex voto; oggi invece il “santo subito” per Trump alla Convention repubblicana.

E come sempre ormai, nutrimento per il delirio universale dei social media, che stropicciano la realtà fino a frantumarla, per ricomporre poi i frammenti a seconda delle proprie personali paranoie e culture dello spettacolo.

Nessuno sceneggiatore avrebbe mai saputo immaginare di poter voltare pagina in questo modo nella trama preelettorale. Tuttavia, la realtà è che oggi il miracolato è sicuro di avere la vittoria in tasca. Il suo partito è più che mai inginocchiato ai suoi piedi. Avvenimenti e foto dell’attentato sono carburante extra per la sua macchina della propaganda. La scelta dell’estremista J.D. Vance per la vicepresidenza conferma e rafforza le inclinazioni reazionarie di Trump – se eletto sarò “dictator on day one”, e mi vendicherò di chi mi è stato contro; parole sue – che il Partito repubblicano ha fatto proprie.

In questo momento i sondaggi dicono che nel paese spaccato in due dalla contrapposizione ideologico-politica, mentre i repubblicani rafforzano la loro presa sulla loro parte, i democratici perdono la loro sull’altra parte. E se si guarda alla stratificazione sociale, le fasce medio basse e le minoranze, tradizionalmente democratiche, sembrano essere sempre meno compatte, mentre i ricchi, cui piace stare dalla parte di chi vince, sembrano essere convinti che il vincitore sarà Trump. Certamente contro di lui sarà il voto delle donne, anche più che nel 2020, e dei giovani.

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Tutto chiaro? Forse troppo. Quale che sia poi l’esito il 5 novembre, i giochi non sono mai fatti a tre mesi e mezzo dal voto. Non solo perché comunque non si può escludere che Joe Biden, per ora perdente nei sondaggi, sia in grado di fare uno sprint finale in quegli stati in cui basterebbe spostare pochi voti per decidere l’esito a suo favore, ma anche perché non si può neppure escludere che alla fine il candidato democratico non sia lui. In ogni caso, il suo stato di inferiorità è manifesto e un suo recupero in extremis non è probabile. Se niente cambia, solo un crescente, grave allarme intorno al pericolo di una nuova presidenza Trump si può immaginare che giochi a suo favore. Fino al punto di ridargli la maggioranza?

Ma come abbiamo appena visto le cose possono cambiare da un giorno all’altro, imprevedibilmente. Biden è un animale politico di lunghissimo corso. Non è possibile che non si renda conto che le sue insufficienze sono diventate eccessive per il ruolo. D’altro canto, se non le sa valutare per quello che sono, è chiaro che non è neppure adatto per fare ancora il presidente. E allora gli elettori voterebbero per Trump, o si asterrebbero dal voto, aggiungendo la crescita dell’astensione alla crisi della politica? Questo è il dramma degli statunitensi, oggi: due candidati, entrambi per ragioni diverse unfit – come dicono loro – per il ruolo che intendono ricoprire.

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In ballo c’è la questione sociale e politica interna, di una gravità con pochi precedenti, e ci sono la perdita di “peso” economico degli Stati Uniti nel mondo; la improcrastinabile chiusura di due guerre che – insieme ai belligeranti diretti – riguardano anche Europa, Nato e gli equilibri politico-militari in tutta la parte transatlantica del globo; la gestione dei rapporti generali con la potenza cinese, nei quali la contrapposizione oscilla sia nel grado di intensità, sia nella prevalenza del campo, di volta in volta economico o politico, diplomatico o militare e così via.

Come dicono le cronache, Biden cerca di assicurarsi la candidatura ufficiale attraverso una convention online anticipata rispetto a quella ufficiale. Non ha avuto concorrenti nelle primarie, quindi le sue aspettative di successo sono fondate. Finora sono stati molti, anche tra chi gli è più vicino, a consigliargli di fare un passo indietro. L’hanno fatto con discrezione. Sarebbe brutto che una parte del partito gli si opponesse pubblicamente nel momento che dovrebbe mostrarne l’unità.

Ma potrebbe anche succedere che Biden, ottenuto il riconoscimento formale, decida, diciamo così, autonomamente di rinunciare alla candidatura: non da sfiduciato, ma da vincitore. Cincinnato.

Il martire repubblicano avrebbe così due portatori di valori democratici cui opporsi, il nuovo Cincinnato a cui sarebbero resi gli onori che spettano ai grandi incorrotti dalla brama di potere (che invece Trump incarna in modo esemplare) e il nuovo candidato o la nuova candidata, più giovani di loro ed energizzati dalla chiamata al salvataggio della patria. La loro forza vitale e la generosità di Biden potrebbero contagiare la loro parte, riportare al voto i demoralizzati e ribaltare i pronostici. Non è cosa che non possa succedere, come abbiamo visto in Francia. Verrebbe voltata un’altra pagina, e riaperto il capitolo finale della storia.