Uruguay, i siti della memoria e il blockchain
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Uruguay, i siti della memoria e il blockchain

Intervista Sitios de memoria Uruguay fa il suo debutto online alla fine del 2019: è una mappa dei luoghi legati alla repressione. Oggi è un archivio web protetto da una rete decentralizzata in blockchain. Mariana Risso è psicologa, lavora con le vittime di violenza e collabora con la Unidad de victimas y testigos della Procura. Rodrigo Barbano, invece, è un programmatore informatico e attivista digitale

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 30 settembre 2023

È stata definita la «blockchain della memoria» perché la tecnologia che da sempre è associata alle criptomonete per la prima volta è al servizio di un progetto sulla storia sociale di una dittatura. Succede in Uruguay. Anche qui, come in Cile, si celebrano i 50 anni dal golpe e l’avvio di una stagione nera durata fino al 1985.

Strano caso, quello uruguayano, perché i militari poterono agire, almeno all’inizio, con l’assenso del presidente in carica, Juan María Bordaberry. E quell’impasto tossico tra la sfera civile e quella militare ha lasciato impronte lunghe dopo il ritorno della democrazia.

Sitios de memoria Uruguayfa il suo debutto online alla fine del 2019: è una mappa dei luoghi legati alla repressione. «All’inizio era proprio una carta geografica con tanto di bandierine e post-it», sorridono Mariana Risso e Rodrigo Barbano. Ora è un archivio web protetto da una rete decentralizzata in blockchain.

Mariana Risso è psicologa, lavora con le vittime di violenza e collabora con la Unidad de victimas y testigos della Procura. Rodrigo Barbano, invece, è un programmatore informatico e attivista digitale.

Come è nata l’idea del progetto?

RB – Volevamo ricostruire una mappa dei luoghi dove sono transitate le persone detenute e scomparse. Così abbiamo unito le nostre competenze: nel 2016 Mariana aveva pubblicato con una collega un testo su questo tema e io ho proposto la geolocalizzazione.

MR – In quel momento c’era una forte mobilitazione a sostegno della Legge dei luoghi della memoria, poi approvata nel 2018. Ad oggi ne sono riconosciuti ufficialmente una ventina e altrettanti segnalati. Ma sappiamo che le tracce e le testimonianze ci portano a un numero molto più grande. Caserme della polizia, centri di detenzione di adolescenti, basi clandestine di appoggio della repressione, case-tortura e di interrogatori: insomma, mancava una mappa completa e pubblica, da sistematizzare e catalogare.

Quanti luoghi avete trovato?

RB – Finora ne abbiamo identificati 160, sia quelli ufficiali che operavano nel marco della ‘legalità repressiva’, sia altri dove si sono incontrate tracce del passaggio di detenuti desaparecidos (29) o dove si sono verificati assassinii nel corso degli operativi (9). È da tener presente che, secondo i dati ufficiali, la maggior parte delle desapariciones sono avvenute fuori dall’Uruguay, nell’ambito del Plan Condor, in particolare in Argentina. Ad oggi mancano all’appello quasi 200 persone.

Il vostro è un progetto civico e collettivo, avete lavorato strettamente con gruppi e Ong.

RB – È stato fondamentale riunirsi con le madri e i familiari dei desaparecidos e con la rete di ex-prigionieri politici (Crysol). Alla mappa dei luoghi abbiamo aggiunto cause giudiziali, schede sulle vittime, appropriazione di identità, manuali dei repressori, articoli: tre mila documenti che continuano a crescere. Abbiamo ritrovato e digitalizzato poster, volantini, fogli sovversivi che le stesse organizzazioni sindacali e politiche non avevano più. In molti casi sono sbucati quando un archivio militare è stato reso pubblico: allora facciamo una sorta di ‘dissequestro’, perché per la maggior parte sono materiali sequestrati nel corso delle retate e i militari poi procedevano meticolosamente a microfilmarli, registrarli e conservarli.

Come siete arrivati alla tecnologia blockchain?

MR – Abbiamo lanciato la pagina web nell’ottobre 2019 e pochi mesi dopo è scoppiata la pandemia. Ne abbiamo approfittato per svilupparla e per creare eventi online. È stato allora che due imprese di comunicazione e innovazione, Inventted e Futuria, hanno contattato le associazioni di familiari per organizzare online la tradizionale ‘Marcia del silenzio’ del 20 maggio in memoria delle vittime. E così siamo venuti in contatto con loro e abbiamo sviluppato una campagna e il progetto blockchain. Ci sembra bellissimo: significa che la rete civica è capace di ampliarsi e di arricchirsi con il contributo di tutti.

Dunque, come funziona il supporto blockchain al vostro progetto?

RB – Di base la pagina web funziona in modo classico con un server centrale e una base di dati. Il supporto blockchain assicura una rete di protezione per cui sarebbe difficilissimo attaccarla e perdere i documenti. Come? Una persona si somma al nodo della rete e certifica che la catena di contenuti è integra e non ha subito alterazioni. Ad oggi in migliaia fanno parte di questa rete. Per noi, oltre a una questione di salvaguardia dei files, ci sembra interessante pensare che tante persone anonime si fanno garanti e custodiscono materiali creati in clandestinità e a rischio della propria vita, distribuiti da attivisti anonimi e rimasti nascosti per più di cinquant’anni. Siamo abituati a pensare questo tipo di tecnologia sempre sul versante finanziario, ma che sia al servizio di un progetto militante per la memoria, ci sembra una bella novità e un precedente importante.

MR – È proprio questo il punto: come poter utilizzare le nuove tecnologie che già sono disponibili e quelle che si stanno affacciando per scopi diversi da quelli per cui sono nate. Ci piace pensare che possiamo disputare al neoliberismo dei territori digitali: è necessario conoscere questi strumenti, appropriarsene e immaginare altro.

Ci sono archivi che devono ancora essere aperti e che la società civile sta reclamando?

RB – Il fatto più eclatante è stata la fuga di documenti dell’intelligence militare, finiti online poco prima del cinquantenario. Si chiama Archivo del terror de Uruguay: parliamo di 3,5 milioni di pagine, una quantità mai vista. L’apertura degli archivi è sempre stata una questione delicata e complicato pure l’accesso ai materiali acquisiti durante il governo del Frente Amplio. Persino il rapporto chiesto ai militari dal presidente Tabaré Vázquez nel 2005 sui desaparecidos non è mai stato reso pubblico.

MR – Tutto quel materiale filtrato è una opportunità: forse si possono trovare nuovi indizi sui desaparecidos, ma quello che colpisce di più è l’enorme e capillare vigilanza su tutta la società che è proseguita impunemente molti anni dopo la fine della dittatura. Ad esempio, sappiamo ora che l’intelligence militare ha continuato a pedinare madri e familiari di desaparecidos, giornalisti e attivisti sindacali: lo rivela un rapporto datato 2004.

La storia del golpe in Uruguay è opaca e inquietante. Dal punto di vista delle istituzioni, quali zone grigie sono rimaste sul terreno della memoria storica?

MR – Chiederselo ci aiuta a mettere a fuoco una peculiarità culturale e politica uruguayana e magari capire perché non siano stati portati a processo tutti i criminali di stato o perché oggi ci sia nella coalizione di governo un partito che nega o minimizza la dittatura. Più che grigia, è una zona di buio profondo. Quando Juan María Bordaberry compie il golpe da presidente in carica, quel 27 giugno 1973, è l’apice di un lungo processo di deterioramento delle istituzioni democratiche, di un esecutivo che governava con leggi eccezionali, sospendendo le garanzie individuali e già praticando la tortura. Con il ritorno della democrazia, poco si è parlato della partecipazione dei civili alla dittatura e di come in tanti ne abbiano tratto vantaggio, penso a molti impresari o latifondisti e persone che hanno mantenuto incarichi negli organi dello Stato. E sul versante politico, a differenza del Cile e dell’Argentina, non abbiamo vissuto forti polarizzazioni e tutti si sono sforzati di sembrare ‘repubblicani’: il risvolto è stata la garanzia di una dose, più ampia possibile, di impunità.

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