In una disarmante intervista televisiva pomeridiana, il ministro Urso ha parlato perfino del prosciutto di Parma ma si è guardato bene dall’affrontare il tema della componentistica auto. Unica eccezione l’incensata microelettronica della Etna Valley, lasciando in un cono d’ombra tutto il resto, dai semiassi ai sedili passando per le serrature, gli sterzi e le pompe idrauliche. Eppure, come ha rilevato il prof Mario Calderini del Politecnico di Milano, la componentistica è ancora forte nella penisola e sul podio in Europa. Ma necessiterebbe di investimenti pubblici per la transizione tecnoecologica e la collegata formazione dei circa 160mila addetti (superstiti) del settore.

Sull’argomento sono già note le “differenze di sensibilità” fra il governo tedesco e quello italiano in tema di politiche industriali, esemplificabili nel rapporto 55/0,95 miliardi (di soli incentivi) per il comparto generale dell’automotive. Né gli allarmi e le denunce della Fiom Cgil, ad esempio sullo stabilimento di Termoli dove ci sarà la ‘gigafactory’ di Stellantis, Mercedes e Total per la produzione di batterie elettriche, oppure sul distretto di Melfi dove per giunta viene utilizzato strumentalmente il tema della transizione ecologica, sembrano scalfire l’imperturbabilità del ministro Urso e dell’intero governo Meloni.

Un governo che peraltro non fa né meglio né peggio dei precedenti, di fronte ai numeri drammatici degli ultimi 15 anni. In questo lasso di tempo, solo nella provincia di Torino si stima abbiano chiuso almeno 370 aziende grandi, medie e piccole, e abbiano perso il lavoro circa 32mila persone, con gli operai della Lear di Grugliasco che rischiano seriamente di far aumentare ulteriormente il numero. Mentre in Toscana, altro polo storico della componentistica, lo scandalo della Gkn di Campi Bisenzio è al momento solo l’ultimo atto di un dramma che ha visto chiudere in questo quarto di secolo prima la Delphi e poi la Trw, entrambe a Livorno ed entrambe di proprietà di multinazionali fuggite dalla penisola, come del resto è accaduto alla Bekaert (ex Pirelli) di Figline Valdarno.

Anche dove si resiste, come alla Magna Closures di Guasticce, il rischio di delocalizzare le produzioni è concreto, perfino in spregio agli accordi sindacali. E sono due rondini che non fanno primavera i casi di potenziali crisi risolte, come spiega Massimo Braccini, segretario generale toscano della Fiom: “Alcune multinazionali sono state invogliate a investire sul territorio. È accaduto a San Piero a Grado per Vitesco, passata alla multinazionale belga Punch, mentre la Pierburg pump technology di Livorno, della multinazionale tedesca Rheinmetall Ag, è stata supportata da un accordo a cui ha partecipato la Regione Toscana”.

Se poi la pandemia e le crisi geopolitiche stanno convincendo le case automobilistiche (e non solo quelle) ad “accorciare” le filiere produttive, con la Germania in prima fila anche grazie a politiche industriali ad hoc, in Italia si fa il contrario: “I tedeschi hanno accorciato la catena di forniture – spiegava giorni fa al ‘manifesto’ Samuele Lodi, responsabile automotive della Fiom Cgil nazionale – qui da noi invece Stellantis la sta allungando”.

Anche ricostruire una filiera corta non è semplice, aggiunge Braccini: “Non è automatico, anche se tante imprese hanno iniziato a farlo, perché non possiamo dimenticare che il rischio del dumping salariale, sia all’esterno che all’interno della stessa Unione europea, è sempre dietro l’angolo”. Le delocalizzazioni nell’est del vecchio continente prima di Bekaert e poi di Gkn-Melrose insegnano.