Approfittando dell’atmosfera estiva, non è ozioso interrogarsi sull’iconografia delle onde. Nonostante le onde si manifestino in una miriade di forme diverse, la loro rappresentazione non è evoluta nel corso dei secoli, perlomeno a partire dall’insuperata Grande onda di Kanagawa di Hokusai (1831), ripresa in chiave ecologica per denunciare l’inquinamento dell’oceano o lo tsunami e la catastrofe di Fukushima nel 2011. In Francia rilevanti sono la cinquantina di dipinti di Courbet (1868-’72) che hanno come soggetto le onde, realizzati in gran parte sulle spiagge di Étretat in Normandia, o i paesaggi marini fotografati da Gustave Le Gray a Sète nel 1857.

Diverse ragioni giustificano tale penuria visiva, intrinseche all’onda in quanto fenomeno naturale che si ripete incessantemente identico a se stesso e persino in assenza dell’intervento umano, a un ritmo scandito solo dal vento e dalle correnti. Difficile restituire in un’immagine fissa l’icona stessa del tempo che, alla lettera, scorre e scroscia in modo ipnotico. Difficile se non impossibile considerare l’onda come fenomeno isolabile dal resto dell’ambiente marino, ovvero come qualcosa di osservabile. Ne fa le spese il Palomar di Calvino, che per un attimo s’illude di poter definire un perimetro preciso all’interno del quale osservare un’onda singola, un perimetro che somiglia a quello di un quadro da cavalletto, debitore di una geometria agli antipodi della fluidità del fenomeno sotto analisi.

Che l’arte contemporanea riesca a sbarazzarsi di tali impasse e dell’iconografia sclerotizzata ereditata dalla storia visiva? Nell’autunno 2023 Urs Fischer, fotografo di formazione e scultore del quotidiano, installa Wave (2018) a place Vendôme a Parigi, già utilizzata per la scultura pubblica contemporanea (Paul McCarthy, Yayoi Kusama, Alicja Kwade). L’onda – fenomeno sfuggevole a noi terrestri – si fa assieme scultura e monumento; si trasforma ovvero nel suo opposto, cristallizzandosi in una forma rigida priva di quella fluidità intrinseca alle immagini in movimento. Non a caso l’interesse del cinema per la natura liquida è di lunga data, dal cortometraggio La Vague (1891) di Etienne-Jules Marey, girato nel golfo di Napoli, alla video art.

L’artista svizzero modella con le mani piccole onde in argilla e ne sceglie una tra le centinaia per realizzarla in grandi dimensioni (520x760x450 cm), più grandi di quelle antropomorfe: è un’onda che può sommergerci. E così deve essere, perché un’onda in miniatura sembra un controsenso, come se la grandezza sia una caratteristica imprescindibile. Il materiale scelto è l’alluminio lavorato e l’acciaio, che danno alla superficie della scultura una patina riflettente simile ai riflessi luminosi sulla distesa increspata del mare. Grazie ai riflessi Wave è sensibile all’ambiente e alla luce circostanti, ancor più con l’illuminazione notturna, quando la sua brillantezza diventa argentata. Tuttavia non perde mai la sua opacità, perché un’onda che si fa specchio distorto alla Kapoor sarebbe poco credibile. L’origine artigianale dell’opera – un aspetto centrale per Fischer se pensiamo alla replica in cera del Ratto delle Sabine di Giambologna alla Biennale di Venezia del 2011 – è preservata nel risultato finale: sulla sua superficie zigrinata riconosciamo le increspature dell’onda quanto le tracce della mano dell’artista. E le due non sono chiaramente distinguibili.

Maestosa senza essere monumentale, Wave è attraversata da un grande vuoto al centro, uno scarto rispetto al classico muro d’acqua. Pende inoltre da un lato, tradendo ogni speranza di regolarità e di staticità suggerita dal basamento. Da qui la sua doppia natura: organica come una scultura di Henry Moore o come quelle rotonde di Barbara Hepworth, fossile come le ossa di un animale estinto ritrovate da un paleontologo.