Henry Bech, protagonista di una serie di racconti di John Updike scritti tra il 1964 e il 1999, è un famoso scrittore ebreo americano che negli spericolati anni Sessanta è arrivato a un punto morto della propria carriera. Dopo il notevole successo ottenuto dal romanzo d’esordio in stile beatnik Viaggiare leggeri, la seconda fatica letteraria di Bech – un racconto lungo «più surreale ed esistenziale e forse anche anarchico» dall’improbabile titolo Fratello porco – aveva lasciato intravedere grandi potenzialità. Tuttavia, il capolavoro che il pubblico attendeva ansioso e su cui lo scrittore faceva più affidamento, Gli eletti, alla sua uscita viene stroncato dalla critica che lo giudica pretenzioso e prolisso. Distratto dal successo ottenuto nel decennio precedente e lusingato da una morbosa attenzione mediatica, il quarantenne Bech sogna il riscatto letterario ma è tormentato da un blocco che gli impedisce di buttare giù anche solo una riga. In attesa dell’ispirazione, non può far altro che sfruttare la propria immagine di ambasciatore culturale in varie parti del mondo, accettando controvoglia inviti a conferenze e reading e pubblicando scialbe raccolte di scritti usciti in precedenza su riviste. L’unico premio letterario che riesce ad aggiudicarsi è la «medaglia Melville, consegnata ogni cinque anni all’autore americano che abbia mantenuto il silenzio più significativo».

Nuova edizione da Sur
Questa è la situazione quando incontriamo lo scrittore all’inizio del Libro di Bech, primo volume della trilogia di Updike pubblicata da Sur con il titolo Vita e avventure di Henry Bech, scrittore (traduzioni di Stefania Bertola, Lorenzo Medici e Attilio Veraldi, pp. 631, € 24,00). Ai tre volumi usciti negli Stati Uniti rispettivamente nel 1970, nel 1982 (Il ritorno di Bech) e nel 1998 (Bech in scacco), si aggiunge qui un racconto conclusivo, scritto nel 1999 e intitolato «L’opera».

Letti di seguito nell’ordine predisposto dall’autore, i tre «quasi romanzi» (così li ha definiti Updike) disegnano un quadro cinico e semiserio del panorama letterario statunitense dal secondo dopoguerra alla fine del secolo. Il trait d’union è proprio la lotta di Bech con l’Angelo dell’arte, rinviata di volta in volta dalle sue intricate vicende sentimentali, dagli innumerevoli viaggi compiuti intorno al mondo (dalla Russia e l’Europa dell’est fino all’Australia, al Canada e alla Terra Santa), nonché dai rapporti altalenanti che intrattiene con colleghi, editori, agenti, critici e lettori. Se nel primo libro Updike ritrae con pennellate lucide e velenose l’establishment culturale degli anni Cinquanta – fatto di provincialismo, grettezza e ripicche personali, ma anche di prese di posizione politiche e slanci idealistici –, nel secondo volume a essere presa di mira è l’atmosfera di illusoria apertura degli anni Settanta, quando le riviste letterarie avevano il potere di stroncare carriere e i laboratori di scrittura creativa finivano per appiattire ogni afflato artistico. Infine nel volume conclusivo, ambientato al volgere del millennio, l’ironia si sposta sulle sperimentazioni postmoderne e sulle nuove forme di scrittura elettronica, agli albori di internet e dei blog letterari.

Nel corso degli anni Updike ha inscenato una serie di interviste con Bech allo scopo di rispondere alle critiche ricevute e per discutere aspetti del proprio lavoro. In una di queste ha confessato alla propria esternazione letteraria: «Tu sei la persona che io, un tempo povero ragazzo di campagna, volevo essere: uno scrittore di New York, immerso fino alle orecchie nei fumi tossici». Anche perciò, nel corso degli anni, Bech è stato spesso letto come alter-ego di Updike (controparte del famoso Harry «Coniglio» Angstrom, protagonista della più celebre tetralogia).

In realtà il personaggio è composito e sfuggente, difficile da mettere a fuoco: artista geniale deciso a non compromettersi o abile approfittatore troppo pigro e vanesio per impegnarsi seriamente nella scrittura? Di nove anni più vecchio del suo ben più prolifico autore, nei primi racconti Bech assomiglia a uno degli schlemiel di cui abbonda la narrativa di Bernard Malamud (i suoi viaggi picareschi generano situazioni comiche e fantasie sessuali che raramente si concretizzano, e quando succede è quasi sempre a spese del protagonista). Il prolungato silenzio lo accomuna tanto a J. D. Salinger quanto a Henry Roth, notoriamente incapace di ripetere il successo di Chiamalo sonno. L’eleganza della sua scrittura e la sicurezza nei propri mezzi rimandano per molti versi a Saul Bellow, mentre l’astio eccessivo provato verso colleghi e critici letterari, così come il successo che riscuote con le donne, fanno pensare a Philip Roth e al suo alter-ego più famoso, Nathan Zuckerman. Del resto, l’espediente di Updike, che usa come prefazione al volume una lettera firmata dal protagonista e indirizzata al proprio autore, sarà ripreso da Roth nell’autobiografia I fatti.

In un primo momento il bersaglio di Updike, noto rappresentante dell’establishment culturale Wasp, sembra essere l’immagine stereotipica dello scrittore ebreo americano del dopoguerra, all’apice del cosiddetto «Rinascimento ebraico-americano». In realtà, verso la fine del secondo libro l’ebraismo di Bech diventa meno marcato e cessa di rappresentare il centro nevralgico di ogni sketch, mentre la polemica si rivela estesa a un’intera generazione di scrittori. In uno dei racconti del volume conclusivo, il settantenne Bech è invitato a presiedere il «Club dei 40», anacronistica istituzione culturale chiamata periodicamente a scegliere i quaranta artisti più rilevanti nel panorama contemporaneo. Per quanto Bech si impegni a promuovere la missione del club, i soci più anziani sono in perpetuo disaccordo sui nomi da invitare, convinti che l’arte contemporanea sia «un mucchio di immondizia» e che la letteratura dei «giovinastri» sia composta da «una serie di fatti, prima succede questo e poi succede quest’altro», dove tutto viene raccontato «con una prosa di una nitidezza mortale». Alla fine la maggioranza vota per lo scioglimento del club e Bech non può far altro che ratificare la decisione.
Ammazzare i critici
In uno dei capitoli più esilaranti, intitolato «Bech Noir», l’anziano scrittore si trasforma in un improbabile e patetico serial killer, deciso a vendicarsi delle umiliazioni ricevute nel corso della carriera uccidendo con metodi degni di una detective story e con l’aiuto di una giovane partner i critici che in passato hanno stroncato i suoi libri. Sono pagine di scoperta parodia postmoderna dei generi letterari, che torna in un altro racconto dove Bech, consapevole di non essere altro se non il personaggio di un romanzo, è «afflitto dalla paura di venire a noia al suo autore, che a quel punto lo avrebbe semplicemente abbandonato».
Proprio la posterità è una delle preoccupazioni costanti dello scrittore: investito della responsabilità di passare la torcia alle generazioni future, in un momento di lucidità Bech si chiede se non sia possibile che lui e gli scrittori suoi coetanei incarnino «un’idea il cui tempo è passato, un’idea che profuma di elitarismo e di valori ormai superati». Ciò nonostante, in una stoccata finale cui Updike non sa resistere, la carriera scarna e irrilevante di Bech si vede coronata dal Nobel: non male per un autore che, nel racconto conclusivo della raccolta e dall’alto della sua ottuagenaria esperienza, descrive i propri libri come «arguti, contorti e fasulli, in cui non si trovava quasi nulla di ciò che era davvero importante».