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Uno show senza tv, ma con una base sempre più militante

Uno show senza tv, ma con una base sempre più militanteL'ex presidente Usa Donald Trump al comizio a Florence, Arizona – Ap

Usa Trump parla in Arizona davanti ai suoi supporter

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 18 gennaio 2022

L’attesissima partita di football, nel gelo domenicale di Buffalo, tra la squadra locale, i Bills, e i bostoniani New England Patriots. E proprio in quelle stesse ore l’annunciato comizio di Donald Trump a Florence, Arizona. Pensate che i grandi network, Fox compresa, si siano posti il dilemma se dare o no spazio all’ennesimo discorso fotocopia di dozzine di altri discorsi identici mentre era in corso un fatto sportivo che appassiona l’America? Anche Alyssa Farah Griffin, che nell’amministrazione Trump fu direttrice delle comunicazioni strategiche, confessa candidamente alla Cnn che lei non se l’è persa, la partita, senza tanto sorprendersi della mancata copertura mediatica della prima grande iniziativa pubblica trumpiana del 2022, sorpresa piuttosto dell’incauta scelta del momento operata dagli strateghi dell’ex-presidente.

La notizia è dunque che Trump non fa più notizia? Certamente, i media, accusati sistematicamente da Trump di creare e diffondere menzogne contro di lui e di essere megafono dei democratici, uno dei punti salienti nei suoi interventi pubblici che strappano grandi applausi e urla nei suoi comizi, non sono incentivati a dare spazio alle sue sparate, molte delle quali, appunto, contro i media, come pure è accaduto a Florence domenica.

Ma non è solo ripicca, da parte dei media, specie le tv: semplicemente gli show di Trump non fanno più spettacolo, con le sue petulanti bugie, il repertorio di contumelie contro Biden e chiunque nel suo partito non si prostri in ginocchio al suo cospetto. D’altra parte anche i suoi fan, che sono ancora tanti e appassionati, quindicimila persone in Arizona, provenienti anche dagli stati vicini, reggono fino a un certo punto le sue intemerate, se il comizio di Florence, iniziato con grande entusiasmo finisce come un mezzo flop, con una parte vistosa del pubblico che se ne va via mentre ancora parla e straparla.

Insomma, l’inizio di quest’importantissimo anno elettorale – a novembre si vota per il midterm – non si direbbe promettente per l’ex-presidente repubblicano e probabile nuovo candidato del Grand Old Party nel 2024. È così?
Indubbiamente il cattivo rapporto con i media comincia davvero a pesare lungo la strada della sua rivincita, anche se esso si riverbera come un notevole rinforzo della lealtà da parte dei suoi fedelissimi, alimentando la narrativa di un Trump martirizzato dai democratici e loro accoliti nei media, eppure pronto a rialzarsi e a sferrare, con loro, un micidiale contrattacco. In realtà, anche se oggi più salato, è un prezzo che Donald Trump ha sempre messo in conto, il conflitto con i media, privilegiando il rapporto forte e diretto, fisico, con una parte militante del suo elettorato, una sorta di sua forza politica personale, fedele, leale, militarizzata, e non solo metaforicamente, da usare innanzitutto per controllare, con l’intimidazione, il Partito repubblicano e i suoi papaveri.

Ma il Trump del 2022 è anche un politico un po’ diverso da quello prevalentemente mediatico e spettacolare, arrivato al potere nel 2016 proprio in virtù del suo essere una star, una celebrity della tivvù, con intense relazioni con i guru delle radio e delle reti di destra. Lo showbusiness che diventa politica e vince. E una volta alla Casa bianca, avido spettatore di talkshow, compulsivo «cinguettatore», sfaticato e indisciplinato comandante in capo, governa più come «intrattenitore» che come presidente. A quel suo tratto, che comunque resta il più caratterizzante, associa oggi un’indubbia capacità di «fare politica», nel senso della conquista progressiva di spazi di potere nei suoi gangli decisivi, per gli obiettivi che si prefigge, innanzitutto la conquista della maggioranza alla camera e al senato in autunno, e poi quella della Casa bianca, non più nelle vesti del golpista ma attraverso un percorso apparentemente legittimo, anche se lastricato di nefandezze.

Lungo questo percorso gli obiettivi tattici sono cruciali, come l’elezione di governatori amici negli stati chiave e dei segretari di Stato di quegli stessi Stati, figure che, al momento dato, saranno decisivi dovendo certificare gli esiti elettorali. Per le campagne per la loro elezione mai sono stati investiti tanti soldi come quelli stanziati da Trump e soci. Proprio in vista di esiti elettorali contestati. Questa la «legittimità» che sta costruendo Trump per preparare il suo ritorno a Washington.

Da questo punto di vista è particolarmente significativo il ritorno sulla scena di Trump alla vigilia del Martin Luther King jr. Day, che a sua volta cade alla vigilia della ripresa al senato dell’iter legislativo del diritto al voto, molto sostenuto dagli African American, uno dei punti qualificanti nell’agenda di Biden. Per farla passare in aula, occorre metter mano alla regola del filibustering, l’ostruzionismo, un’operazione di capitale importanza bloccata da due senatori democratici. Col risultato di mettere ancor più in evidenza la debolezza politica di Joe Biden, sempre più in picchiata nei sondaggi, capo di un partito che non lo segue, al cospetto di una sua constituency fondamentale qual è l’elettorato nero, avendo di fronte un avversario, mediaticamente azzoppato, sì, ma che, sia pure con metodi intimidatori, controlla saldamente il suo partito e dispone di molti, molti soldi.

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