«The Apprentice», Donald Trump si diventa
Cinema Nelle sale italiane il film di Ali Abbasi, osteggiato dall’ex presidente, incentrato sul rapporto con l’avvocato Roy Cohn. A malapena distribuito negli Usa, non tanto per i contenuti ma perché uno dei maggiori investitori, Dan Snyder, pensava di aver finanziato un’agiografia
Cinema Nelle sale italiane il film di Ali Abbasi, osteggiato dall’ex presidente, incentrato sul rapporto con l’avvocato Roy Cohn. A malapena distribuito negli Usa, non tanto per i contenuti ma perché uno dei maggiori investitori, Dan Snyder, pensava di aver finanziato un’agiografia
«La versione punk rock di un film storico». Così il regista iraniano/danese Ali Abbasi (Holy Spider), poco prima del suo arrivo, in concorso, a Cannes 2024, aveva descritto il suo nuovo lavoro, The Apprentice, un film/ romanzo di formazione sugli albori della carriera di Donald Trump.
Presentato al festival ancora senza un distributore americano (in Italia il film è Bim), e prontamente attaccato a distanza dal suo soggetto (che non lo aveva visto, ma vive secondo il motto all press is good press), The Apprentice è a malapena arrivato nelle sale Usa prima del voto. Non tanto per i suoi contenuti scioccanti, o qualche censura omnisciente, ma perché uno dei maggiori investitori del film, Dan Snyder, è risultato essere grosso sostenitore dell’ex presidente (oltre un milione di dollari in donazioni): non avendo letto la sceneggiatura, Snyder credeva di aver finanziato una semi-agiografia ed è andato su tutte le furie. Prima di poter vendere il film (alla piccola distribuzione indipendente Briarcliff Entertainment), i produttori hanno quindi dovuto districarsi dalla sua partecipazione.
LA REPELLENZA istintiva e l’altrettanto istintiva attrazione con cui si guarda qualcosa di orrendo, come il verificarsi di un catastrofico incidente ferroviario, vanno a braccetto quando si tratta della rappresentazione di Trump. Quel connubio, coniato dal mainstream mediatico durante la sua prima campagna presidenziale (in altri tempi si sarebbe chiamato exploitation), che ha contribuito alla vittoria trumpiana e che, dopo un intervallo di tre anni, è tornato come il brutto capitolo 9 di un Friday 13th, sono anche alla base del dna di The Apprentice – un ennesimo bicchiere di quel carburante dell’indignazione che ci alimenta ogni giorno. Un’indignazione così iperbolica (e supremamente frustrata, nella sua incapacità di smuovere in modo significativo i sondaggi) per cui Trump non ha nemmeno più bisogno di minacciare di uccidere qualcuno sulla Quinta strada, o di raccontare di come gli haitiani in Ohio mangerebbero i gatti: gli basta ballare per venti minuti senza dire una parola durante un comizio per monopolizzare i telegiornali per due giorni.
NON È UN CASO che un amico, valutando se andare a vedere o meno The Apprentice, la cui uscita è stata salutata da qualche scaramuccia tra l’ex presidente e il regista, parlasse di «fattore porno». Negli Usa, dove Trump lo si mangia, beve e respira tutto il giorno – e, grazie alla «sua» Corte suprema, non si può nemmeno più processarlo – c’è da domandarsi a cosa possa servire (nel pro e nel contro) un film così timido, furbo e superficiale. Che di punk (o di rock) non ha niente, ma sicuramente lusinga l’aspirante presidente e forse gratificherà ulteriormente il senso dell’oltraggio del raro liberal rimasto che non sia già a conoscenza di questa origin story.
Sebastian Stan (premio per la recitazione a Berlino per A Different Man; bravo anche qui) è un giovane Donald Trump, animalescamente intelligente, anche se schiacciato dall’autorità inflessibile del padre Fred, che lo costringe a collezionare, porta per porta, gli affitti mensili dei poveracci che vivono nei loro tremendi project nel Queens. Come si apprendeva nel film molto migliore di James Gray Armageddon Time (Cannes 2022), la politica di discriminazione razziale che Trump Sr. applicava alla selezione dei suoi affittuari, gli costò una causa per infrazione dei diritti civili, rispetto alla quale Jr. ha occasione di aiutarlo quando -si racconta nel film – una sera in un club esclusivo incontra Roy Cohn (Jeremy Strong), braccio destro di Joe McCarthy durante gli hearings della Commissione per le Attività Antiamericane, procuratore che mandò i Rosenberg alla sedia elettrica e avvocato, tra gli altri, di Aristotele Onassis, Rupert Murdoch, Tony Salerno e John Gotti.
Tra i due è amore a prima vista: Cohn vede nel giovane ambizioso ma provincialmente goffo (Trump patirà tutta la vita di essere nato nel Queens, non a Manhattan) un allievo ideale. Da parte sua, Donald – naturalmente senza scrupoli, e ansioso di farsi protegger da un’ala più prestigiosa di quella di suo padre – coglie al volo il pregio degli insegnamenti offerti da quell’uomo con lo sguardo serpentino: attacca attacca attacca; non ammettere niente, nega tutto; proclama sempre vittoria, non riconoscere mai la sconfitta. Regole che diventeranno il suo manuale per l’uso, dai tempi della scalata all’immobiliare di Manhattan e Atlantic City (ritratte nel film, temporalmente inquadrato da apparizioni televisive di Nixon e Reagan), fino all’esplosione della carriera politica.
SCRITTO dal giornalista Gabriel Sherman, già biografo del consulente politico di Nixon e ideatore di Fox News, Roger Ailes, The Apprentice (il titolo flirta con quello del famoso reality Nbc che, da protagonista dei tabloid newyorkesi, fece di Trump una celebrity nazionale) prevede alcune riconoscibili figure di contorno, come la prima moglie Ivana (Maria Bakalova), che vediamo stuprata dal marito (dopo aver raccontato l’episodio, in occasione del divorzio, Ivana Trump lo aveva ritrattato), e il sindaco di New York Ed Koch. Ma è essenzialmente un duetto tra Cohn e Trump, Strong e Stan. Duetto che Abbasi ha pretenziosamente paragonato a quello tra il biondo, alto Joe Buck (Jon Voight) e Rico “Ratso” Rizzo (Dustin Hoffman), in Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede). Forse per sottolinearne l’implausibilità, visto che con il film di Schlesinger non c’entra niente e New York, una dei protagonisti della storia di Trump, qui non esiste quasi.
Tornando all’attrazione tra opposti: Cohn era un ebreo omosessuale, mentre Trump, aggressivamente eterosessuale, già allora rilasciava dichiarazioni razziste (e in queste ultime fasi di campagna elettorale ha alzato il tiro a tutto campo). Prevedibilmente, al momento opportuno, nella sua scalata sociale e al potere, l’allievo lascerà il maestro nella polvere (Cohn è morto di Aids). Insomma, la materia di un romanzo esemplare c’è tutta. Il film no.
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