Visioni

Un’estetica in movimento alle fondamenta del paesaggio

Un’estetica in movimento alle fondamenta del paesaggioUn momento di «Paysages partagés» a Losanna – foto di Sarah Imsand

Scene «Paysages partagés», una passeggiata performativa ideata da Caroline Barneaud e Stefan Kaegi dei Rimini Protokoll con dieci artisti invitati, fino al 18 giugno nella stagione del Théâtre de Vidy di Losanna, poi ad Avignone e Milano. I nuovi paradigmi dell’Antropocene, il punto di vista tecnologico, l’agency

Pubblicato più di un anno faEdizione del 4 giugno 2023

Paysages partagés (Paesaggi condivisi) è una passeggiata di sette ore che si snoda attraverso dieci luoghi con spettacoli site-specific e brani di musica dal vivo per strumenti a fiato. Ideata da Caroline Barneaud e Stefan Kaegi insieme a dieci artisti invitati, è in programma per altre tre domeniche a Losanna, fino al 18 giugno, all’interno della stagione del Théâtre de Vidy. Sarà poi riprodotta in altri posti, tra cui il Festival di Avigone e Milano. Rivisitando i punti salienti della filosofia della natura contemporanea, sfida le fondamentali categorie estetiche del paesaggio, tra cui la prospettiva lineare, il punto di vista in movimento, il panorama, così come le sue connotazioni culturali. Pratiche ordinarie, come l’escursionismo, la visita della città e il picnic, vengono introdotte nello spazio della performance per sviluppare una nuova percezione delle relazioni diplomatiche tra umani e non umani, rieducare l’occhio e imparare ad accettare inviti al dialogo.

Foto di Sarah Imsand

COSA SAPPIAMO di Losanna dal punto di vista paesaggistico? Rive mozzafiato del lago di Ginevra, dove l’accesso alla natura è un lusso. Forse allora è meglio un modesto ambiente boscoso ai bordi dell’abitato. Paysages partagés evita deliberatamente i siti turistici mercificati, si estende su terreni pubblici attraversabili liberamente. Il sottotitolo della performance «tra campi e foresta» deve essere preso alla lettera, il sito prescelto nella pianura di Mauverny a Chalet-à-Gobet combina foreste artificiali e terreni agricoli, allontanandosi così dal binarismo natura/cultura.
L’introduzione di Stefan Kaegi propone diversi possibili accessi all’argomento. La conversazione preregistrata tra uno psicoanalista, un guardaboschi, un bambino curioso, un meteorologo e un cantante nippo-svizzero, ruota attorno a ciò di cui abbiamo paura e il modo in cui vorremmo morire – temi davvero ecologici se ci pensiamo dal punto di vista dell’ansia per il clima e dei numerosi modi di vivere e morire nell’Antropocene. Tagliare un albero significa uccidere un essere vivente. Allo stesso tempo, se vivessimo tutti per sempre, non ci sarebbe più posto.
I musicisti nascosti tra le foglie ci invitano a ulteriori dialoghi, ma prima di tutto indicano per chi viene effettivamente eseguita la musica. L’opera UNLESS di Ari Benjamin Meyers ha quattro parti: Per gli alberi, Per la terra, Per gli uccelli e Per l’aria. Nella seconda, ad esempio, sei musicisti con strumenti a fiato di diverso calibro si sdraiano improvvisamente nell’erba alta, così da sentirli ma non vederli, anche se sappiamo dove sono. Proprio come accade spesso con insetti o piccoli animali che vivono a ridosso del suolo. Meyers, compositore nato a New York e residente a Berlino, è piuttosto virtuoso nell’integrare umorismo beckettiano e microperformance nella sua colonna sonora.
Secondo la sua etimologia, il paesaggio è un modo di organizzare la proprietà – e un punto di vista su essa. Bruno Latour apre le sue lezioni di Gifford (trasformate nel libro La sfida di Gaia)

Foto di Leonard Rossi

con un’analisi dettagliata de La grande riserva di Caspar David Fridrich. Ciò che lo lascia perplesso è l’impossibilità del punto di vista «elevato» proposto dal pittore, come se lo spettatore ottocentesco osasse prendere il posto di qualche divinità soprannaturale. Il dio di oggi è la tecnologia, e Daniel Koetter e Beguem Ercyas propongono un’esperienza strabiliante per dimostrare questo teorema. Nel loro intervento agli spettatori viene offerto un casco per la realtà virtuale nel mezzo di un accogliente prato verde. Dall’interno gli alberi e l’erba sembrano quasi uguali, ma non del tutto. All’improvviso il punto di vista, il nostro sé soggettivo, inizia a salire lentamente. Le immagini danno la sensazione di levitazione. Fisicamente siamo fermi a terra, ma lì, in quel dispositivo di proiezione iperrealista con visione a 360 gradi, ci muoviamo lentamente prima al livello dei rami, poi sopra le cime degli alberi. La linea dell’orizzonte si apre e si allontana. È particolarmente curioso guardare i propri piedi, solo per rendersi conto che non ci sono. Il punto di vista di dio è sostituito dal punto di vista disincarnato e puramente teorico della telecamera.

PER LE PERSONE che seguono la nuova realtà digitale della guerra, queste immagini evocano immediatamente filmati di ricognizione aerea dei droni. Dal punto di vista di dio possiamo anche provare la sensazione di essere un drone che cattura e domina silenziosamente il territorio. La seconda parte della performance lo conferma. Siamo invitati a leggere un bellissimo testo sulla miniera d’oro di Sotk nel Nagorno Karabakh. Situato proprio sul confine conteso tra Armenia e Azerbaigian, è passato di mano così tante volte prima e durante il conflitto armato del 2023, che la popolazione locale è diventata sensibile al suono dei droni turchi e capace di individuare i punti di fuoco negli spettacolari panorami montani. Hanno imparato a pensare verticalmente.

Pratiche ordinarie, come l’escursionismo e il picnic, vengono introdotte nello spazio della performance per sviluppare la percezione delle relazioni tra umani e non umani
Tanto questo intervento di Koetter&Ercyas quanto l’intera esperienza di Paysages partagés è in un certo senso un tentativo di entrare nel paesaggio conosciuto attraverso le mappe di Google, scendere con i piedi per terra e cercare di capire le relazioni tra i diversi agenti in gioco. Il duo italiano Chiara Bersani e Marco D’Agostin propone un altro tipo di espansione dei confini individuali della sensibilità. Nei dipinti di Friedrich, uno dei quali usato come sfondo, c’è spesso il mistero di una figura in primo piano che si colloca tra gli spettatori e la scena. Nel loro spettacolo un ragazzo su una sedia a rotelle rotola al centro dello spazio e comincia a parlare. Si chiama Swan (Muller), ha 16 anni ed è molto carismatico. Non sappiamo cosa lo leghi alla sua sedia a rotelle, ma vediamo che a volte ha bisogno di aiuto per i movimenti più ordinari. Tuttavia apre la sua borsa da picnic e organizza una specie di tea party del Cappellaio matto, o meglio una sua versione solista. Parla di musica e tempo libero come la maggior parte degli adolescenti. Con il suo corpo estremamente insolito e i suoi modi affascinanti e amichevoli invita alla conversazione. Non mordo, dice. Swan ha una presenza molto forte ma è delicato quando condivide i suoi pensieri. La natura è distrutta, e così anche alcuni di noi. E ciò che ci rende umani è la capacità di entrare in empatia, come conferma la famosa storia del femore guarito di Margaret Mead.
Seguono ulteriori riferimenti alla storia dell’antropologia. Sofia Diaz e Vicor Roriz evocano il pollice opponibile, che è diventato uno strumento piuttosto utile per l’evoluzione. Propongono una coreografia collettiva, dirigendo i membri del pubblico attraverso le cuffie. La creazione di figure nello spazio ricorda i rituali primordiali:

Foto di Sarah Imsand

riunirsi attorno al fuoco, imitare alberi e montagne, nascondersi o affrontare il pericolo.
Anche i musicisti affrontano il pericolo. For the birds inizia con le voci registrate degli ornitologi neozelandesi, che seguono i cacciatori maori cercando di imitare il canto dell’uccello huia, estinto all’inizio del XX secolo. Quando ascoltiamo il flautista e ci rendiamo conto che è seduto in alto sui rami di un albero, riconosciamo immediatamente nella sua musica come l’uccello femmina risponda ai versi di un maschio.

LA REGISTA ecofemminista francese Émilie Rousset riporta alla visione panoramica orizzontale con i suoi tre personaggi che si avvicinano lentamente da lontano. Due attori ricostruiscono le interviste tra una burocrate dell’Ue responsabile del sostegno all’agricoltura e un’esperta di bioacustica. La prima descrive i problemi strutturali che impediscono agli agricoltori di utilizzare tecnologie più rispettose dell’ambiente. L’altra ricorda il suo dottorato di ricerca sui microsuoni del moscerino e il suo recente lavoro sulla comunicazione delle allodole. Ogni primavera si sentono sempre meno allodole, conferma Jean-Luc Chollet, agricoltore locale in pensione, questa volta parlando di persona. Arriva in modo spettacolare sul suo trattore a passo lento, sottolineando la differenza tra l’agricoltura tradizionale e quella industrializzata ad alta velocità.

LA PIOGGIA battente ricorda di non trascurare il lato pratico del protocollo performativo: poncho impermeabili, scarpe da trekking. Gli artisti continuano coraggiosamente. Tutti vengono premiati con l’arcobaleno a doppio arco che si china maestosamente sull’orizzonte. Una scenografia che qualsiasi regista teatrale amerebbe per il suo spettacolo, e un gentile promemoria dell’agency, la capacità di azione autonoma, di ciò che stiamo guardando.

Come far apparire un arcobaleno è anche un capitolo del libro del ‘600 di Nicola Sabbatini composto da istruzioni pratiche per creare effetti speciali nel teatro rinascimentale italiano. Artisti contemporanei da Philippe Quesne a Olafur Eliasson tentano regolarmente di ricrearlo in condizioni di laboratorio con vapore e luce. Ma le tecniche del teatro di testimonianza richiedono di affrontarlo direttamente nell’accadere, e di metterlo poi in gioco in qualche modo.
L’intervento finale del duo ispano-svizzero El Conde de Torrefiel tratta precisamente di questa nuova agency planetaria, che dobbiamo affrontare col nuovo regime climatico. «Mi hai chiamato dio. Mi hai chiamato scienza. Mi hai chiamato Gaia», dice una voce stridula, stregata, decisamente non umana (probabilmente generata artificialmente), logos personificato del super-naturale. Antico e danneggiato, era lì quando abbiamo imparato a tenere in mano gli strumenti e inventato la parola, era lì ad osservare la nostra avidità e arroganza, la nostra autoindulgenza e ossessione per la tecnologia, sarà lì quando ce ne saremo andati. Come i dinosauri.

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