Una prima pagina tutta bianca. Contro i raid la scelta di Pintor
1999-2019 20 anni fa la guerra «umanitaria» Nato
1999-2019 20 anni fa la guerra «umanitaria» Nato
Fuori erano cominciati i raid della Nato. «Italiano, Aviano», era l’accusa ripetuta da tutti nel commissariato dove finimmo guardati a vista da un soldato armato, io e il fotografo Mario Boccia, a Bujanovac (Valle di Presevo) presso il confine serbo-macedone. Ci cacciarono. Ma 24 ore dopo entravo a nord, verso Novi Sad su un’autostrada deserta. Nella notte la meraviglia dei tre ponti moderni della città venne spezzata. Anche lì, il giorno dopo, su un bus verso Pancevo-Belgrado, qualcuno ci sussurrò: «Italiano, Aviano». Eravamo diventati un sinonimo inquietante. Ma il dolore vero fu correre per giorni a raccogliere notizie e resti umani. A Surdulica ci accolse un cratere tra case contadine con i resti di decine di anziani e bambini. «Italiano, Aviano».
Difficile raccontare che tra le case popolari di Belgrado avevamo visto chiuse nei rifugi tante famiglie terrorizzate. Lo comunicai in redazione a Luigi Pintor che mi disse che aveva in mente «qualcosa». Mentre la guerra aveva ormai come primo target l’informazione: i media internazionali pendevano dalle labbra di Jamie Shea.
Era il portavoce della Nato che cianciava di «effetti collaterali» e «bombe intelligenti». Ma invece della «guerra umanitaria» scoprivamo tante stragi di civili. Piovevano 35.450 cluster bomb su case, scuole, ospedali, fabbriche, ambasciate. Tutti furono costretti a scriverlo. Poi un giornalista britannico si complimentò con noi per una prima pagina de «il manifesto» che, ci disse, stava facendo il giro del mondo: era bianca e in calce gridava: «I bambini non ci guardano». Ecco che aveva in mente Luigi Pintor.
Ma ci furono in Italia anche troppe pagine nere, come quelle che giustificarono il bombardamento della tv di Belgrado, con 16 vittime, colpita dai missili Cruise in mezzo alle case dei belgradesi, ai panni stesi sui terrazzi, con i cavi tranciati che piovevano nel quartiere una specie di neve chimica.
A venti anni di distanza, a che sono servite quella guerra e quelle menzogne? La menzogna diplomatica di Rambouillet che imponeva alla Jugoslavia di essere tutta presidiata dalla Nato? La bugia di Racak, il casus belli sostenuto dall’uomo della Cia William Walker che guidava la missione Osce che doveva mediare tra le parti? Perché fino al 24 marzo c’erano vittime e profughi da una parte e dall’altra. Come dimostrò l’incriminazione dell’ex premier Ramush Haradinay, capo dell’Uck nella Drenica, all’Aja per stragi di civili rom e serbi già nel 1998. E come denunciò Carla Del Ponte nel suo libro («La caccia», ed Feltrinelli) e un rapporto del Consiglio d’Europa: nel 1998 molti civili serbi furono sequestrati proprio dall’Uck per un barbaro mercato di espianto di organi.
Così, con i raid aerei, si volevano salvare i profughi in fuga albanesi? Profughi che fuggivano non solo per timore delle milizie serbe ma, secondo la stessa Corte penale kosovaro albanese che lo stabilì in un processo nel 2001, anche perché terrorizzati per i raid della Nato. E avevano ragione, perché centinaia di loro furono letteralmente inceneriti dai missili «intelligenti».
Ma i risultati di quella «guerra sciagurata» – così la definì Claudio Magris – ci sono. Eccome. La Nato da coalizione di difesa è diventata offensiva, da lì in poi dispiegata in tutto il mondo; la contropulizia etnica di 300mila serbi e rom cacciati sotto gli occhi della Nato e mai più rientrati, insieme alla distruzione di 150 monasteri ortodossi. Inoltre l’edificazione a Camp Bondsteel della più grande base militare Usa in Europa. Infine l’indipendenza autoproclamata del Kosovo del 2008, che spacca ancora il Consiglio di sicurezza Onu e l’Ue ed è riconosciuta solo dalla metà dei circa 200 Paesi delle Nazioni unite. Nel disprezzo del diritto internazionale, perché la guerra umanitaria dei 78 giorni di raid finì con la pace di Kumanovo del giugno 1999: imponeva alla Serbia il ritiro temporaneo del suo esercito, permetteva l’ingresso dei contingenti Nato ma riconosceva la sovranità di Belgrado sul Kosovo. Ora quell’accordo è carta straccia, anche grazie all’Italia che nel 2008 riconobbe l’ultima indipendenza etnica dei Balcani. Nel frattempo lo Stato del Kosovo – secondo l’Onu stessa – è tra i più corrotti, malavitosi e poveri nonostante i tanti investimenti degli organismi internazionali. E la sua indipendenza unilaterale rappresenta un precedente pericoloso che insanguina ancora il mondo, come dimostrò in quello stesso anno il conflitto tra Georgia e Russia corsa in armi a difendere il «suo Kosovo» in Ossetia e Abkhazia, o la più recente crisi in Ucraina con la secessione del Donbass e la riannessione della Crimea dopo referendum. Tante le ferite che si sono riaperte.
Un fatto è certo. Quello del 1999 non è stato l’ultimo conflitto armato dei Balcani, ma la prima guerra post-moderna sospesa tra l’uso della forza che riproduce la forza e l’immaginario del potere alla ricerca della sua «costituente» legittimazione. «Perché così – ha scritto l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema per spiegare il protagonismo dell’Italia – abbiamo conquistato lo status di grande paese».
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