Il campo da baseball pubblico sarà dismesso per fare spazio a una scuola d’arte. Non ci saranno più altre occasioni e le squadre dei Riverdogs e dei Adler’s Paint si danno appuntamento per l’ultima partita. Siamo in un posto qualunque del New England, a metà anni 90. Dalla radio una voce rauca – é quella di Frederick Wiseman – annuncia l’evento e la macchina da presa filma l’arrivo dei giocatori. Giovani e vecchi, in forma o zoppicanti, nessuno di loro mai abbastanza bravo per pensare di farne una cosa seria e tanto meno una professione, gli uomini che escono dalla propria auto hanno in comune un’appartenenza e una mitologia che, davanti a un evento che segna un prima e un dopo nelle loro vite, verrà cambiata per sempre.

«NEL BASEBALL aspetti ore per entrare nel gioco e in un momento tutto è finito»: quando questa battuta viene pronunciata, anche chi non conosce nulla dello sport americano per eccellenza capisce che si sta parlando della partita ma anche di cinema. La drammaturgia slabbrata del baseball, dove i tempi morti valgono quanto i punti, permette alla vita di infiltrarsi agevolmente nelle maglie dell’azione e al cinema di darle la forma che meglio gli conviene.
Carson Lund, regista esordiente del collettivo losangelino Omnes Films, ma anche giocatore di baseball da fine settimana, usa in modo sapiente le lunghe pause che intervallano i fulminei pitch sul diamante di gioco. Sono questi momenti di ripiegamento, durante i quali i personaggi si scambiano battute e lasciano cadere considerazioni che nel corso del film vanno a definire un unico discorso. La nostalgia per la gioventù perduta, l’amarezza delle sconfitte subite, gli eccessi alcolici e alcuni residui barlumi di furore agonistico portano il composito gruppo di maschi fino alle soglie della sera quando si ostinano a proseguire il gioco alla luce dei fari delle automobili. La palla diventa invisibile e i giocatori rimasti prendono sullo schermo un’apparenza fantasmatica. A questo punto appare chiara l’ambizione del regista Carson Lund che senza parere, lancio dopo lancio, ha costruito un’epica minore dell’America. E, invece di usare lo sport come intensificatore dei conflitti che si agitano nella società, lo ha eletto a modello di pensiero.

IL TITOLO Eephus, definisce un lancio con una curva talmente lenta da creare grossi problemi al battitore: simile in qualche modo al cucchiaio calcistico, viene eletto a simbolo da Lund, è un gesto che sintetizza eleganza e ironia, messa in scacco dell’agonismo avversario e visione distaccata della struggle for life americana. Collocato negli anni 90, il film assomiglia a L’ultimos spettacolo di Peter Bogdanovich, che celebrando la chiusura di una sala di periferia prolungava la vita del cinema: lo stesso cerca di fare Lund, scommettendo sulla dilatazione del tempo per trovare spazio nelle visioni contemporanee. Un ottimo film e un regista da tenere d’occhio.