Gli ucraini vogliono armi a più lunga gittata, per continuare a colpire in profondità la logistica russa, rendendo insostenibile l’occupazione. Le armi che affluiscono dall’Occidente ci raccontano invece della pressione per un’offensiva diretta, per l’estate. Così da accorciare i tempi e segnare l’esito della guerra, verso un settlement da una posizione di forza.
I russi bombardano, ma da Sebastopoli, Belgorod e Rostov giungono notizie di esplosioni e incendi. Nelle scuole della Crimea i bambini sono sottoposti ad addestramento militare, mentre arriva Putin a celebrare nove anni di annessione: si porta addosso un mandato di cattura per crimini di guerra spiccato dal Tribunale dell’Aia.
Al pari di Washington, Mosca non ha sottoscritto il Trattato di Roma che istituisce il Tribunale. La deportazione dei bambini dalle città ucraine, flagrante violazione delle Convenzioni di Ginevra in materia di responsabilità della potenza occupante, è sempre stata presentata da Mosca come salvataggio umanitario.

Prevedibilmente i gerarchi, rabbiosi, parlano dell’ennesima, oltraggiosa prova di una guerra voluta dall’Occidente, pescando nel trito repertorio della paranoia. Mentre la Russia cerca di convincere il mondo della propria nobile guerra difensiva, un leader accusato di aver voluto varcare la linea dei crimini di guerra rappresenta un imbarazzo che va al di là dei 123 paesi che riconoscono il Tribunale. La logica della superpotenza porta con sé l’ambizione all’impunità (ricordiamo gli Stati uniti in Iraq), ma la guerra della Russia soffre di efficienza militare declinante, e a nessuno sfugge la parabola di quei capi di stato che sono incappati in mandati di arresto del Tribunale dell’Aia. Di certo si restringono i margini di viaggio (non vedremo più Putin alle cene romane o agli expò milanesi). Altrettando evidenti sono le implicazioni immediate dell’accusa sulla prospettiva di negoziati.

Xi è atteso a giorni a Mosca, mentre si annuncia un contatto anche con gli ucraini. Mai come ora la Cina sembra avere un ruolo chiave rispetto all’idea di negoziato e, in prospettiva, di pace. Con il recente annuncio della Global Civilisation Initiative, imperniata sul rispetto per la diversità delle civiltà, Pechino si affaccia ormai sull’ordine globale attraverso diversi documenti che esplicitano le linee di fondo della sua visione, declinando concretamente le ambizioni della politica estera del terzo mandato di Xi. Da quando nel 2015 è stata enunciata all’Onu, la «Comunità di futuro condiviso dell’umanità» definisce l’aspirazione cinese a un sistema internazionale libero da distorsioni occidentali, fondato su partenariati fra uguali, su una nuova architettura di sicurezza, su politiche di sviluppo comune e scambi fra civiltà. Una visione complessiva nella quale modernizzazione non equivale a occidentalizzazione.

Lanciata ormai dieci anni fa, la Belt and Road Initiative incarna la visione cinese di un mondo con interconnesso (finanza e infrastrutture) e l’ambizione «a costruire un nuovo modello di relazioni internazionali». Nel 2021 la Cina ha proposto la propria Global Development Initiative, riprendendo gli obiettivi di sviluppo sostenibile del Millennio Onu. Durante il summit di Boao del 2022, Xi ha infine annunciato la Global Security Initiative, esplicitata poi in un concept paper pubblicato giorni fa, ad un anno dall’inizio dell’invasione russa, per dare forza all’esplicito ingaggio diplomatico cinese su questo fronte: nell’enunciare le linee guida della riforma della sicurezza collettiva, Pechino inasprisce la critica del protezionismo americano, e mette al centro l’Onu integrità territoriale, sovranità statale, uniformità dell’applicazione del diritto internazionale, risoluzione pacifica delle dispute.

Su queste basi la direzione della politica estera cinese appare oggi, in contesto di crescente rivalità con Washington, orientata all’ingaggio con il Sud Globale, a partire dal mondo che fu colonizzato, tipicamente marginale nella governance globale. Strumentale alle ambizioni egemoniche di Pechino, la visione cinese della pace ambisce a caratterizzarsi per il proprio tratto post-coloniale. Lungo questa direttrice, anche in ragione di rivalità perduranti ed interessi divergenti, essa fatica ad allinearsi fino in fondo col revisionismo imperialista russo.

Al tempo stesso, la debolezza di Putin, la sconfitta militare che si prepara, lo spettro di un periodo di torbidi, obbligano la Cina ad esporsi maggiormente in direzione di una soluzione negoziata. Fino a che punto, nel dare sostegno a Mosca, Xi si spingerà nel sostenere la costruzione russa di mondi separati, ad esempio con processi per crimini di guerra ucraini creati ad uso e consumo dell’audience dei paesi emergenti (Brics)? Quanto potrà concedere tatticamente rispetto alle proprie ambizioni globali, con proposte di cessate il fuoco che, se non sviluppate con un ingaggio politico strategico, rischiano oggi di ricalcare solo gli interessi di Mosca? L’Europa che fu colonialista ha tutto da perdere da una guerra che non si ferma, e molto da guadagnare da un intenso dialogo con Pechino.
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