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Una mano tesa alle destre

Una mano tesa alle destrePedro Sánchez e Pablo Iglesias

Spagna L’idea, fin dall’inizio, è stata quella ripetere il voto per ridimensionare Unidas Podemos e tornare al tranquillo bipartitismo perfetto. Un disegno miope, che non corrisponde alle esigenze del paese, ma offre a una coalizione delle destre una possibilità reale di recupero

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 19 settembre 2019

Se Sánchez per il Psoe e Iglesias per Unidas Podemos, protagonisti del fallito accordo che porta la Spagna di nuovo a votare per la quarta volta in quattro anni, pensano di attenuare il malumore diffuso nella cittadinanza mettendo in scena un ulteriore mediocre spettacolo su chi è il vero responsabile della mancata intesa, si illudono parecchio. Disaffezione e sdegno serpeggiano nell’elettorato di sinistra per il tira e molla e lo scempio fatto del voto grazie al quale, il 28 aprile scorso, avevano sconfitto le destre e offerto la possibilità di una coalizione delle due sinistre con tutti i numeri per governare la Spagna, con l’appoggio dei nazionalisti baschi del Pnv e l’astensione di Erc, la sinistra repubblicana indipendentista catalana.

È iniziata la campagna elettorale di Sánchez contro tutti: Iglesias è «dogmatico», Casado del Pp manca di «senso dello stato» e Rivera di Ciudadanos è «irresponsabile».

Questo il tono delle prime dichiarazioni, ma Unidas Podemos non sembra sottrarsi, con Iglesias che ha ribadito che il Psoe non voleva affatto un governo progressista, ma preferiva un accordo con Ciudadanos, in nome della stabilità. Se questo è l’inizio, si sa che i toni peggioreranno ulteriormente, demotivando ancora di più l’elettorato progressista, poco interessato alla ripartizione di responsabilità che invece attrae le tre destre che faranno della inaffidabilità delle sinistre, e anche della loro litigiosità, un ulteriore punto di forza a loro favore.

Chi doveva responsabilmente cercare accordi era il vincitore delle elezioni, il Psoe, cosa che in questi quattro mesi non ha fatto. Perché è ormai evidente che questa ripetizione elettorale è stata cercata e voluta dai socialisti fin dalla sera del 28 aprile, quando, a risultati noti, hanno preso atto che l’unica maggioranza possibile era con Unidas Podemos. In questi quattro assurdi mesi non si è avviata alcuna trattativa concreta, ma c’è stata solo una costante denigrazione del socio preferito, con cui si è d’accordo su tutto, ma è impensabile governare insieme, perché obbligherebbe quel tutto a materializzarsi. A iniziare dalla transizione ecologica, passando per la deroga della legge sul lavoro, per arrivare alle tasse su patrimoni e rendite bancarie e chissà cos’altro. Si sono allora manifestati i veti e le offerte tranello, per farsi dire di no, al punto che Iglesias, nelle discussioni, non si è meritato nemmeno uno «stimato Pablo», contrariamente alle buone maniere riservate a Rivera, di Ciudadanos, che non ha mai smesso di chiamare i socialisti la «banda del Psoe».

L’idea, fin dall’inizio, è stata quella di tornare al voto per ridimensionare e rendere ininfluente Unidas Podemos. È palese la voglia del Psoe, e del Pp, di riportare la Spagna al tranquillo bipartitismo perfetto che garantiva la stabilità, basata sulla comune convinzione di non mettere mai in discussione il sistema, per spartirsi il potere. Per questo è indispensabile chiudere a sinistra con l’anomalia di Unidas Podemos e a destra con le ambiguità di Ciudadanos.

È un disegno miope, che non corrisponde alle esigenze del paese, ma offre a una coalizione delle destre a egemonia Vox, il partito falangista, una possibilità reale di recupero, favorita dal ritorno dell’astensione per disaffezione. La rappresentanza politica che Podemos ha cercato di dare in questi anni, anche con difficoltà, ai movimenti di indignazione del 2011 e ai movimenti sociali non può essere recuperabile da un ritorno allo schema del bipartitismo e delle larghe intese, così come le domande di cambiamento radicale che il suo elettorato ha espresso non troveranno mai rappresentanza in questo Psoe.

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