Una giustizia in croce
Spagna Esplode in Spagna il «caso Jaén», un bracciante di 24 anni condannato per avere postato su Instagram la sua immagine con le sembianze di un Cristo di proprietà di una confraternita local
Spagna Esplode in Spagna il «caso Jaén», un bracciante di 24 anni condannato per avere postato su Instagram la sua immagine con le sembianze di un Cristo di proprietà di una confraternita local
La Spagna del 2018 continua ad avere un rapporto molto problematico con la religione e con la propria magistratura. La settimana scorsa, un giovane bracciante di 24 anni di Jaén è stato condannato a pagare una multa di 480 euro per aver postato su Instagram una propria immagine con le sembianze di un Cristo di proprietà di una confraternita locale. L’accusa è quella di aver attentato contro i sentimenti religiosi (art. 525 del codice penale). Secondo la sorprendente sentenza, il giovane, «con manifesto disprezzo e derisione della religione e con il fine di offendere i sentimenti religiosi dei suoi membri» realizzò «una vergognosa manipolazione del volto dell’immagine».
LA RICHIESTA dell’accusa era di una multa di più di 2100 euro (oppure 180 giorni di carcere), ma il giovane, consigliato dalla sua avvocata, ha optato per riconoscersi colpevole di un delitto che, secondo quanto lui stesso dichiarato, non crede di aver commesso.
Indipendentemente dall’entità della multa, per moltissimi esperti giuristi la sentenza – ormai inappellabile – è del tutto fuori luogo, ma soprattutto collide con la libertà di espressione. Il professore di Diritto penale Joaquín Urias, come molti altri sulle reti sociali, ha espresso la propria solidarietà e ha difeso la libertà di espressione postando su twitter una foto di questo ormai famoso «Cristo Despojado» con la propria faccia e «tanti saluti alla pubblica accusa».
MA QUEST’EMBLEMATICO caso non è l’unico a mettere in evidenza una magistratura spagnola incapace di affrancarsi dall’abbraccio della politica e della religione, e un clima in cui la libertà di espressione è messa sempre più a repentaglio. Un caso di cui il manifesto scrisse su queste pagine risale al Carnevale di due anni fa: allora, due incauti burattinai finirono in carcere per direttissima perché delle loro marionette innalzavano un assurdo cartello inneggiante a Eta-Al Qaeda (che paradossalmente nell’opera rappresentava proprio l’invenzione di un giudice per condannare i protagonisti).
MESI DOPO, il caso venne archiviato, ma intanto i due si fecero cinque giorni di carcere. Più recentemente, i membri di un gruppo rap sono stati condannati a due anni e un giorno (per assicurarsi che entrino in carcere) per le parole di alcune loro canzoni. E ancora, una twittera è stata condannata a marzo dell’anno scorso a un anno di carcere e a ben 7 di interdizione dai pubblici uffici per aver pubblicato alcuni tweet di ironia nera sull’attentato dell’Eta che assassinò il primo ministro franchista Carrero Blanco nel 1973 (tra l’altro Cassandra, questo il nome della twittera, è una transessuale: di qui, tanto per peggiorare la situazione, il giudice deduceva, come aggravante, che Cassandra si nascondeva dietro un nome falso). Condanne gravi sono anche state chieste (in un giudizio ancora in corso) per un altro rapero che racconta nelle sue canzoni le malefatte dell’ex re Juan Carlos e attaccava le forze dell’ordine per la morte di 15 immigranti a Tarajal (fatti per cui nessuno invece è mai stato processato).
IN ALTRI RECENTI casi con ampia eco mediatica, invece, alla fine è stata chiesta l’archiviazione: l’anno scorso, una drag queen che nel carnevale de Las Palmas de Gran Canarias si era mascherata da Vergine Maria e da Cristo in croce pronunciando frasi con forte connotazione sessuale; e il caso della portavoce della sindaca di Madrid Manuela Carmena, Rita Mestre, assolta (in appello) dall’aver commesso lo stesso delitto del bracciante di Jaén: nel suo caso, per aver partecipato in una protesta a seno scoperto in una cappella (prima di ricoprire il suo attuale incarico).
L’elenco di casi e l’intricato percorso giuridico di ciascuno di essi – quando nella maggior parte dei casi sarebbero dovuti essere archiviati prima ancora di procedere – dimostra che esiste un problema sempre più grave relativo alla libertà di espressione in Spagna. E non solo per le questioni religiose, come abbiamo visto. C’è poi anche l’esempio del carcere preventivo per alcuni politici catalani, indagati per i discutibili reati di «sedizione» e «ribellione», che persino Amnesty International considera «eccessivo e sproporzionato». Alcuni di essi hanno addirittura rinunciato al seggio per dimostrare di non voler neppure potenzialmente poter tornare a delinquere, ma niente da fare: il ripetuto diniego alla scarcerazione in attesa del giudizio è tutto motivato dalle posizioni politiche degli imputati (impossibile l’inquinamento delle prove e ormai poco probabile la fuga, rimane solo la reiterazione del delitto, cioè il fatto che possano continuare a essere indipendentisti).
SECONDO MOLTI, l’indagine catalana non solo mette in luce la scarsa indipendenza della magistratura spagnola, ma apre un dibattito, ancora una volta, sulla libertà – per di più di una figura politica – di esprimere i propri obiettivi politici senza il timore di ritorsioni.
E IL FATTO che la magistratura spagnola abbia un problema di autonomia e indipendenza viene evidenziato anche da un rapporto redatto in gennaio dal comitato Greco (Gruppo di stati contro la corruzione) del Consiglio d’Europa: fra le molte critiche alla Spagna, spiccano proprio quelle relative all’indipendenza giudiziale: per esempio, la composizione del Csm (qui chiamato Consejo del Poder Judicial), interamente eletto dai partiti invece che dai giudici, e la mancanza di autonomia della pubblica accusa (la Fiscalía), nominata e diretta dal governo.
E DI QUESTA settimana è anche la clamorosa decisione del Tribunale dei diritti umani di Strasburgo che condanna la Spagna per «trattamento inumano e degradante» verso i due terroristi dell’Eta che nel 2006 fecero saltare per aria un parcheggio dell’aeroporto di Madrid, causando due vittime. Arrestati nel 2008, denunciarono torture da parte della Guardia Civil, ma il Tribunal supremo annullò le condanne delle guardie. Ora Strasburgo, pur senza parlare di torture (per mancanza di prove), condanna la Spagna, e indirettamente la sua polizia e i suoi giudici. Lo stesso tribunale a cui la Spagna ha ben pensato, poche settimane fa, di mandare come sua rappresentante una giudice omofoba e che ha mentito sul suo curriculum. Tanto che 75 eurodeputati hanno chiesto alla Spagna di rivedere la decisione.
E C’È ANCHE una questione di censo: finché l’accesso alla magistratura rimarrà così complicato, per cui entrano solo le classi più agiate, sarà difficile rompere l’equilibrio, oggi fortemente sbilanciato verso le correnti più conservatrici. Se la Spagna del secolo XXI vuole davvero archiviare le sue ferite franchiste, prima o poi dovrà fare i conti con la propria magistratura.
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