«Il cinema oggi è controllato sempre di più dai capitali, quindi dalle richieste di chi finanzia i film, dai selezionatori dei festival… Non conformarsi a questo significa assumere dei rischi che non sono enormi, non si tratta di andare in guerra, ma che certo pesano sul futuro di un’opera. Io però sono convinto che vadano affrontati perché un artista deve poter scegliere liberamente». E lui, Radu Jude, lo fa e lo rivendica nei suoi film sempre molto politici a partire dalle scelte formali messe in campo – Godard è tra i suoi riferimenti dichiarati. Di cosa parla il regista classe 1977, Orso d’oro col magnifico Bad Luck Banging or Loony Porn (2021) – uscito in Italia col titolo Sesso sfortunato o follie porno? Del presente, e dunque anche della Storia del suo Paese, la Romania – di cui è uno dei registi più talentuosi sin dagli esordi nel2009 con The Happiest Girl in the World – che nel suo sguardo ironico e privo di mediazioni diviene specchio della contemporaneità.

Neo liberismo e post-socialismo, precariato, social network, auto-rappresentazione, razzismi, ipocrisie di un «politicamente corretto» spesso solo di superficie vengono triturati in esperienze limite, narrazioni frammentate, immagini che mischiano estetiche e cifre diverse con una iconoclastia punk che interroga con chi guarda la sua stessa materia.

Do Not Expect Too Much from the End of the World non fa eccezione. Presentato in concorso a Locarno – e subito adorato dai festivalieri con l’altissima probabilità di essere il Pardo d’oro 2023 – del precedente Bad Luck… riprende alcuni temi e la visualità estremizzandone la decostruzione narrativa nello «smascheramento» di un presente colto attraverso le vite di singoli che ne incarnano i conflitti.Un casting alla ricerca di invalidi del lavoro, le multinazionali, Bucarest ieri e oggi

PROTAGONISTA del film, il cui titolo, Non aspettarti molto dalla fine del mondo è ispirato a un aforismo di Stanislaw Jerzy Lec, è Angela (Ilinca Manolache) una giovane donna che passa la giornata nel traffico aggressivo di Bucarest. Lavora per una società di produzione cinematografica rumena a servizio di multinazionali estere come casting ma anche runner e persino cameriera vista la mancanza di personale.

Dai finestrini della sua macchina, in un bianco e nero sgranato (della pellicola) scorre un paesaggio di speculazioni edili che divorano persino i terreni del cimitero – tra i loculi spazzati dalle nuove proprietà private c’è anche quello della nonna appena sepolta della ragazza – ricchezze e miserie, come nelle case di chi incontra per il nuovo spot sull’importanza dei mezzi di protezione al lavoro, operai e lavoratori rimasti invalidi per un incidente (quasi sempre la responsabilità mai riconosciuta è delle imprese). Anche lei rischia di finire come loro vista la stanchezza di giornate senza fine al volante: in macchina mangia, fa sesso prima di correre a prendere la dirigente magnanima della multinazionale (Nina Hoss) remota pronipote di Goethe che non ma mai letto l’opera dell’illustre parente.

In parallelo c’è un altro film, nella Romania del 1981, colori saturi di una vecchia copia mai restaurata con una giovane donna che si chiama anche lei Angela e guida un taxi. I maschi al volante sono sempre poco gentili ma la violenza non sembra così esacerbata: sarà stato meglio durante il socialismo o è solo questione di meno macchine in giro? E quel passaggio è stata un’occasione perduta? L’Angela di oggi sfoga la sua rabbia su IG con un «doppio» maschile che lancia commenti sessisti e volgarissimi rimando a (o parodia di) Andrew Tate, il social-machista in Romania condannato per prostituzione e stupro, e nel frattempo raccoglie pezzi di vite stritolate come la sua dall’ insicurezza (economica e non solo) che le schiavizza.

Non è semplice parlare di gig economy senza vittimismo o ritratti edificanti e consolatori, inventando un costante spiazzamento formale nel quale si delinea quel cortocircuito terribile tra accettazione per necessità e controllo; quindi paghe basse e orari di lavoro massacranti fino a mettere da parte ogni dignità e per un migliaio di euro e apparire nello spot passando quasi da «colpevoli» della propria invalidità nell’abile «washing» della multinazionale che promuove la sicurezza ma non la garantisce ai propri lavoratori.

QUESTA urgenza di fare i conti con la nostra realtà rimane la linea orizzontale della narrazione divisa in due capitoli, il secondo più breve e la parte migliore del film affermata, insistita fino persino alla ripetitività che tiene insieme questo on the road di una giornata che diviene il nostro mondo di cui appunto ogni dettaglio si fa espressione, offre una consapevolezza, evidenzia la partecipazione. Quella di chi accetta perché senza scelte o senza più appigli di una protesta collettiva, di una lotta, di una rivolta. È tutto vero, e forse per questo si esce pensando che manca qualcosa.