Italia, abbiamo un problema. E il problema si chiama astensionismo. Da anni, ormai decenni, lo andiamo ripetendo, ma sempre al vento. Perché i partiti, appena scrutinate le schede, preferiscono girarsi dall’altra parte facendo orecchie da mercante. Ma finché l’astensione è soltanto un piccolo rumore di fondo, un malessere appena percettibile, infilare la testa sotto la sabbia per non vedere il problema può essere un’idea comprensibile, sebbene non ragionevole.

Quando però il problema diventa serio, e i non-votanti superano i votanti (com’è accaduto, per la prima volta in Italia con queste elezioni europee), allora nascondere il malessere sotto il tappeto è solo un modo per aggravare la situazione. La diagnosi è piuttosto chiara: la nostra stanca democrazia italiana si sta ammorbando, passo dopo passo, di un virus che si chiama indifferenza e che colpisce gli organi vitali di un sistema politico democratico.

Nella democrazia dell’indifferenza, dove apatia e protesta si danno manforte, i sintomi della malattia sono ormai evidenti da tempo, ma aver sfondato con le ultime elezioni europee la soglia psicologica – e patologica – del 50% del non-voto ha reso il malessere ancora più acuto. Diamo voce ai numeri: nel giro degli ultimi due decenni, quelli che con poca fantasia alcuni studiosi hanno ribattezzato gli anni della «policrisi», l’Italia ha lasciato per strada oltre 10 milioni di elettori. In media, mezzo milione di potenziali votanti ogni anno ha deciso di restare a casa, di non esercitare il proprio dovere civico elettorale, andando a gonfiare le vele dell’astensione. Nel primo ventennio del nuovo secolo, un elettore su quattro ha ritirato la propria partecipazione dall’arena della democrazia europea, e una tendenza simile si registra tanto alle elezioni politiche quanto in quelle amministrative. Di questo passo, basterà ancora una manciata di elezioni europee per assistere a un processo elettorale a cui prende parte un terzo dell’elettorato, con i restanti elettori chiusi nella loro bolla di indifferenza a lamentarsi del crescente deficit democratico che intacca la legittimità delle istituzioni dell’Ue, per la loro distanza dai bisogni e dai sogni delle «gente comune».

Di fronte a questa diagnosi generale, c’è poi un malessere ancora più profondo e specifico che tocca i ceti sociali più poveri e svantaggiati, i quali – com’è noto a tutti tranne ai fautori dell’autonomia differenziata – risultano sovrarappresentati soprattutto nelle regioni meridionali. Non è un caso infatti che anche queste elezioni europee abbiano certificato quel differenziale partecipativo che, con una media di circa 15 punti percentuali, ha separato le regioni del Centro-nord da quelle del Sud. Così, a una democrazia dimezzata dall’astensione si aggiunge la realtà di un paese che continua a essere spaccato a metà, e dove la storica questione meridionale approfondisce la nuova questione democratica.

Peraltro, come rivelano le prime analisi dei flussi elettorali, il virus dell’astensionismo ha scarse connotazioni partitiche, ma importanti sfumature sociali. Al di là di una perdita un po’ più consistente (e ampiamente prevedibile) del M5s verso l’area del non-voto soprattutto nelle regioni del Meridione, tutti gli altri partiti hanno perso all’incirca un quinto dei consensi ottenuti alle elezioni politiche del 2022 a vantaggio dell’astensione. Parliamo quindi di un fenomeno trasversale, che colpisce tutte le formazioni politiche senza particolari distinzioni ideologiche e che, oltre a questi nuovi ingressi, ha visto consolidarsi al proprio interno un’area di astensionismo ormai cronico, pari al 70% dei non-votanti. In termini assoluti, parliamo di un blocco elettorale multiforme di circa 15 milioni di elettori che non solo mina le fondamenta della rappresentanza democratica, ma finisce anche per darne una pericolosa torsione classista. Infatti, dentro il bacino del non-voto troviamo, in quasi due casi su tre, rappresentanti dei ceti subordinati, molti disoccupati o piccoli artigiani o commercianti in difficoltà rispetto alle grandi trasformazioni del capitalismo globale-digitale.

Insomma, se questa è la diagnosi confermata anche dall’ultimo voto europeo, bisognerebbe passare rapidamente a riflettere sulle possibili cure e poi agire di conseguenza e con coerenza. La strategia dei partiti è nota: basta nascondere il problema per risolverlo, sperando passi in fretta ‘a nuttata elettorale. Ma fino a quando potrà reggere una democrazia senza popolo?