Nell’immaginario occidentale più comune, l’India ha sempre faticato ad affrancarsi dai cliché che la dipingevano come un paese a tratti crudo, se non avvolto in un fascino esotico. Fieri maharaja su elefanti ingioiellati, asceti nudi in silenziosa meditazione sulle rive dei fiumi sacri, bimbi cenciosi e mendicanti alla periferia suburbana delle grandi metropoli, fanatici religiosi pronti a scannarsi a vicenda per questioni di fede: queste evanescenti visioni, immagini parziali di una realtà ben più complessa, ancora oggi caratterizzano la percezione dei non indiani sul Subcontinente asiatico. Ma i ben cinquemila anni (e più) di storia dell’India sono altresì in grado di tessere una narrazione, misteriosa e avvincente, di civiltà antiche, di scuole filosofiche profonde, di regni e imperi maestosi che si avvicendarono prima ancora che gli europei facessero capolino sulle rotte asiatiche.

LA COMPRENSIONE della storia di questa cultura, così longeva e composita, è quindi al contempo una continua e coraggiosa ricerca e una vibrante sfida, che va ben oltre il luogo comune di un paese spesso definito dai forti contrasti e da una religiosità stravagante incastonata in una rigida e predefinita gerarchia di caste. La primissima civiltà fiorita sul Subcontinente, ovvero quella di Harappa e Mohenjodaro nella Valle dell’Indo, propone ancor oggi misteri dibattuti e irrisolti per gli studiosi, come la sua scrittura finora indecifrata o le dinamiche del suo stesso declino. Altrettanto ricco è il periodo seguente in cui gli antichi regni indù, attraverso la cultura sanscrita e le visioni religiose che da essa scaturirono, furono in grado di coagulare la realtà magnificente dei primi imperi.
L’impatto (o l’avvento, a seconda delle prospettive) dell’Islam portò poi a un periodo di ricchezza e sincretismo culturale: la grandiosità dei mausolei e delle moschee d’epoca Mughal sono oggi un simbolo noto dell’India nel mondo. L’era coloniale, infine, con tutte le sue intrinseche controversie, impose al Subcontinente il termine d’un medioevo luminoso, sostituendolo con un’epoca di oppressione e sfruttamento che sarà poi anche di progressiva modernizzazione.

SONO, QUESTI, solo quattro dei maggiori momenti chiave della storia indiana, su cui però gli storici non hanno finito di lavorare, cercando di ridurre il cono d’ombra che in realtà ancora per certa parte li oscura. Gli studi in corso implicano la comprensione delle strategie di coesistenza e di interazione dei diversi costumi delle popolazioni che hanno contribuito a creare quell’arazzo multidimensionale che è l’India odierna, la cui storia è raccontata in uno fra i migliori lavori apparso verso la fine del secolo scorso, il The New History of India, dello storico americano Stanley Wolpert, grande appassionato di Gandhi e scomparso nel 2019.

Ora Bompiani, che lo aveva già edito nel lontano 1985, quando divenne subito un punto di riferimento per tanti appassionati e studenti di indianistica in Italia, ripropone questa Storia dell’India in una nuova edizione (a cura di Giuliano Boccali e Daniela Sagramoso Rossella, pp. 704, euro 25) rivista ma scarsamente aggiornata, e dunque a tratti anacronistica, che segna comunque il ritorno di un grande classico.
Salace talvolta il giudizio di Wolpert sui destini controversi di alcune figure indiane di spicco, e corposa la sezione dedicata alle imprese coloniali britanniche. Sebbene oggi si noti la mancanza di una riflessione sul significato di storia e storiografia, nonché sul concetto di tempo e del ruolo che l’uomo vi svolge, secondo la tradizione indiana, va ricordato che Wolpert fu tra quegli indologi di fama internazionale che si opposero al revisionismo storico propagandato dall’ala estrema del fondamentalismo indù.

LA DESTRA NAZIONALISTA indiana ha infatti da sempre criticato il fatto che la storiografia dell’India sia sempre stata figlia di una prospettiva coloniale, scritta sostanzialmente secondo un metodo troppo occidentale. Un biasimo tutto sommato legittimo, non fosse che l’agenda di riscrittura della storia nazionale sia passata attraverso il ridimensionamento, e la successiva stigmatizzazione, del ruolo culturale di tutte le minoranze non indù del paese, in primis i musulmani.
Roghi di libri in piazza, tensioni comunalistiche, furono il frutto di questo revisionismo che in Occidente non può non richiamare alla mente una lugubre memoria. Eppure in un passato recente, la radicale modifica dei testi scolastici in India è diventata una realtà, che la destra conservatrice indiana cercò poi di estendere anche agli Stati Uniti. Un certo anacronismo, o staticità, insito nel mancato aggiornamento dell’opera di Wolpert si può forse in parte giustificare col ruolo che egli ebbe nel tentativo corale di arginare il fenomeno. A noi rimane un piacevole lettura della storia del Subcontinente indiano, ma che pone una implicita riflessione sull’importanza profonda della storiografia.