Il primo pensiero è per chi è rimasto a Kabul. «Lì la situazione è tremenda, sono ancora in tanti a essere intrappolati», dice Keyarang. Lei ce l’ha fatta a fuggire, e forse ancora non ci crede mentre si guarda intorno nell’aeroporto romano di Fiumicino dove è arrivata ieri insieme a 216 connazionali grazie a un corridoio umanitario, il primo dal paese asiatico. È passato quasi un anno da quando i talebani entravano a Kabul, dopo la decisione degli Stati Uniti e dei loro alleati di ritirare le truppe rimaste lì per venti anni.

Keyarang è una giornalista e in quei giorni c’era. «Sono stata tra le sette donne che hanno protestato in piazza a Kabul durante le prime ore dell’insediamento dei talebani» racconta. «Poi dopo due mesi di resistenza ho deciso di scappare perché ero in pericolo di vita e sono arrivata a Islamabad. Una volta lì ho avuto un crollo psicologico, mi sentivo sola e non sapevo cosa fare, la situazione politica e sociale del Pakistan è difficile. Ho anche pensato di tornare a Kabul, poi ho conosciuto uno scrittore italiano che mi ha aiutato, mi ha messo in contatto con l’Arci e dopo sette mesi sono qui».

L’attesa è stata lunga e la paura tanta ma le loro facce all’arrivo a Fiumicino sono stordite e sollevate.  I 217 afghani atterrati ieri pomeriggio da un volo proveniente dal Pakistan sono in maggioranza di etnia hazara e tra di loro ci sono 50 bambini. Ad attenderli c’erano dei palloncini colorati, cartelli con la scritta «Benvenuti in Italia» tradotta in pashtu e dari, il suono delle percussioni e tanti giovani volontari dell’associazionismo italiano.

Il loro ingresso in Italia è stato reso possibile grazie al protocollo di intesa con lo Stato italiano, firmato il 4 novembre 2021 da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese, Arci, Caritas Italiana, Iom, Inmp e Unhcr. Un accordo che dovrebbe portare in Italia 1.200 persone in due anni.

Tra gli arrivi dei giorni scorsi e quelli che ancora si attendono tra domani e dopodomani, sono circa 300 in totale i primi afghani arrivati in Italia per via legali, dopo i circa 5000 evacuati frettolosamente da Kabul lo scorso agosto, nelle drammatiche ore del ritiro dall’Afghanistan, e dopo quelli, forse poche decine, fatti entrare informalmente tramite la pressione delle associazioni sulle ambasciate di Iran e Pakistan. Gli altri, la maggior parte, restano in attesa.

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«Un anno fa il governo italiano aveva preso un impegno» dice la viceministra Marina Sereni , «non abbandonare il popolo afghano, l’impegno è ancora valido anche di fronte a crisi come quella ucraina» e assicura che di corridoi ce ne saranno altri. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Delle 1200 persone previste dall’accordo 400 dovrebbero essere a carico dello stato e gestiti dall’Unhcr. Per ora però lo stato è ancora fermo e a muoversi è stata la società civile, non senza intoppi e difficoltà. «Verso gennaio abbiamo sollecitato il governo, che inizialmente avrebbe dovuto pagare le spese di viaggio per questi arrivi, ma i soldi non c’erano, ci hanno detto che per accelerare i tempi dovevamo provvedere noi» spiega Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci.

Come in tutti i corridoi umanitari, sono le associazioni che si occupano di vitto, alloggio e integrazione dei rifugiati che vengono fatti arrivare. In questo caso l’organizzazione del viaggio sul campo, a Islamabad, è stata gestita da Solidaire in collaborazione con Open Arms, il cui fondatore Oscar Camps ha ribadito la disponibilità delle Ong a «facilitare in ogni modo questi corridoi, per evitare la sofferenza non necessaria di chi muore in mare».

Anche Marco Impagliazzo, presidente della comunità di Sant’Egidio, ribadisce l’impegno dell’associazione ad accogliere il più possibile: «Il fiore che vi abbiamo regalato all’arrivo» dice a una platea composta in gran parte di famiglie con bambini piccoli provati dal viaggio «significa che non ci siamo dimenticati di voi». Segue la traduzione del mediatore, un applauso spontaneo e qualche lacrima di commozione.