Un rifugio da incubo
Rifugiati palestinesi nel campo profughi di Nahr al-Bared, nel nord del Libano, durante un sit-in di protesta – Afp/Marwan Naamani
Internazionale

Un rifugio da incubo

Libano Serpenti che soffocano, uccellacci che assediano. I sogni che occupano le notti nei campi profughi palestinesi in Libano raccontano della doppia violenza subita: l’emarginazione e l’esilio

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 17 novembre 2022

Al-Buss è un campo rifugiati all’entrata della città di Tiro (Sur in arabo), nel sud del Libano, appena qualche chilometro dalla frontiera con Israele. Creato nel 1937 durante il mandato britannico, ospitava all’epoca rifugiati armeni.

NEL 1950, dopo che gli armeni furono spostati nella regione di Anjar, nella valle della Bekaa, nel campo si installarono rifugiati palestinesi. Cominciarono ad arrivare in Libano nel 1948 dopo la Nakba (la «catastrofe», la cacciata dalla Palestina di quasi un milione di palestinesi per mano dei paramilitari sionisti prima e dello Stato di Israele poi).

A causa del divieto di rientrare in Palestina, i campi inizialmente temporanei finirono per diventare permanenti. Oggi Al-Buss conta circa 5mila abitanti e non conosce la drastica sovrappopolazione che invece caratterizza la maggior parte degli altri campi palestinesi sparsi sul territorio libanese.

Nei pressi di Al-Buss si trova l’enclave palestinese di Jall el-Bahr il cui statuto legale, a differenza del campo, non è mai stato riconosciuto dall’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa).

Bisogna immaginarsi un insieme di abitazioni minuscole, dai muri in cemento, il pavimento in terra e i tetti in zinco, che si ammassano su una striscia sottile della costa lunga a malapena due chilometri. Come tutte le enclavi palestinesi in Libano, anche Jall el-Bahr vive una situazione di povertà e insalubrità estreme.

I suoi abitanti vivono dei magri profitti della pesca: l’estate porta un leggero sollievo ma l’inverno è il mese più duro anche perché il mare mosso e le onde non si fermano di fronte alle porte e alle finestre delle abitazioni, causando regolarmente grandi danni.

Dopo il matrimonio Yara, che di anni ne ha 32, si è trasferita dalla famiglia del marito, come vuole la tradizione. Vivono in una parte dell’enclave formata da un insieme di tre case dove è raggruppata tutta la famiglia del marito. In mezzo c’è una piccola corte dove ogni sera ci si riunisce per mangiare e far passare il tempo.

YARA SOGNA spesso di morire soffocata da un serpente o da un altro animale di cui ricorda solo l’aspetto particolarmente viscido e spaventoso. Raccontando il sogno, Yara evoca spesso il terrore per il mare e per la morte. Soprattutto per la morte dei suoi figli o di suo marito, che diverse volte si sono fatti sorprendere dalla tempesta mentre erano fuori a pescare.

Man mano che la conversazione diventa sempre più intima, Yara parla di una sensazione di «soffocamento» rispetto alla famiglia, ai suoi vicini, all’estrema vicinanza delle case, alla mancanza totale di intimità e alla grande confusione. Yara insiste molto sulla paura viscerale che suscita in lei l’ambiente in cui vive e nel quale non si è mai sentita né sicura né serena.

È da diversi anni ormai che Yara si addormenta solo con il Corano vicino al suo letto, «per scacciare via gli incubi e impedire che gli spiriti malvagi si manifestino durante la giornata» e sogna di vivere in una bella e grande casa, sperduta in mezzo al silenzio del bosco.

Se si considera la sfera onirica come un sismografo, come ha fatto Charlotte Berardt nel suo libro Rêver sous le IIIème Reich (Rivages, 2022), i sogni che abbiamo raccolto a Al-Buss acquisiscono una dimensione antropologica che permette di tracciare i contorni del linguaggio notturno del campo.

DETTO ALTRIMENTI, i sogni danno accesso alla spazio-temporalità repressa, sottostante e nascosta del campo. Nel campo è come se la dimensione psichica si trovasse strutturata essenzialmente attorno a due forme di violenza.

Da un lato, una violenza strutturale causata dall’inflazione e dalle penurie dovute alla crisi economica del paese (assenza di medicine, latte per i neonati, farina, benzina, elettricità, acqua potabile), una violenza che non fa distinzione tra libanesi e rifugiati, che colpisce senza discriminazione.

Dall’altro lato, invece, una violenza precisa che nasce all’interno del dispositivo «campo» e struttura interamente «l’essere-divenire palestinese». Si tratta di una forma di violenza che, con il passare degli anni, ha creato un’identità fragile perché costruita a partire da un susseguirsi infinito di traumi, ferite, silenzi, discriminazioni e divieti.

Il centro di salute mentale gestito dall’associazione Bayt Atfal al-Sumud si trova in un piccolo vicolo all’entrata di Al-Buss. Nour, la direttrice del centro, ci spiega che da qualche anno il loro lavoro è messo a dura prova.

La sovrapposizione della crisi sanitaria e della crisi politico-economica nella quale il Libano continua a sprofondare spaventosamente richiede di privilegiare un approccio in grado di fare fronte alla necessità di sopravvivenza.

Non si tratta più di assicurare una terapia a lungo termine, impossibile sia economicamente che praticamente, ma una terapia breve, immediata – che faccia appunto fronte alla crisi urgente del quotidiano.

LE ABITAZIONI ANGUSTE, la mancanza di lavoro, la difficoltà a procurarsi beni di prima necessità, il tasso di abbandono scolastico sempre più elevato sono la causa di un aumento drastico di gravi forme di depressione, ansia, disturbi del comportamento e tendenze suicide sia tra gli adulti che gli adolescenti. A questo insieme di elementi si aggiungono violenza coniugale, abusi sessuali sui minorenni e un grande ripiego su droghe e alcolici.

I responsabili del centro di salute mentale temono che, nonostante la fine delle restrizioni legate al Covid, l’aumento allarmante della disoccupazione e le condizioni di vita sempre più deteriorate diventino la causa principale dell’insicurezza e dell’instabilità che ormai strutturano la vita degli abitanti del campo.

Incontriamo Layla, 49 anni. Lei è nata nel campo di Tall al-Za’atar (Beirut) durante la guerra civile ed è riuscita a fuggire dal campo durante il massacro del 1976. Ora abita a Al-Buss con il marito e con le loro tre figlie.

La palazzina in cui abitano si trova su un lato del campo delimitato non da blocchi in cemento armato, come le altre parti del campo, ma dalle antiche rovine romane completamente trascurate e abbandonate, frequentate solamente da cani randagi e da spacciatori di droga.

LE SCALE che portano al loro piano sono completamente invase da piccole gabbie con uccelli vari, soprattutto colombe. Appartengono tutte a suo marito che addestra anche lui, come tanti altri, i diversi gruppi di colombe a sfidarsi nel cielo.

Spesso a fine giornata, al momento del tramonto, il cielo si riempie dei fischi e delle grida provenienti dai tetti delle case dove si trovano i proprietari che cercano di fare volteggiare al meglio le loro colombe. Spesso queste invadono i sogni di Layla e diventano degli uccellacci di cui non sopporta più il rumore.

C’è voluto molto tempo prima che ci raccontasse che lei stessa si sente chiusa in gabbia, in preda agli uccellacci, perché suo marito non la lascia mai uscire di casa con le sue figlie. Notte e giorno, stanno chiuse senza neanche tentare un’uscita di nascosto perché il marito si diverte a rientrare a casa all’improvviso a orari sempre diversi.

Un altro sogno che Layla fa spesso è di ritrovarsi all’aeroporto con un grande zaino in spalla, pronta a partire. Ma per un motivo o per l’altro, nel sogno succede sempre qualcosa che impedisce il viaggio.

UNO DEI MOTIVI più frequenti è la paura di dover partire abbandonando le figlie. Alla domanda dove le piacerebbe andare, Layla risponde sempre che il suo sogno è di ritornare nel suo villaggio in Palestina, «un luogo pulito, calmo, verde e libero da armi e dall’insicurezza che regna nel campo».

(Tutti i nomi sono stati cambiati)

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