Che cosa significa la vittoria di Drive My Car per l’industria cinematografica giapponese e più in generale per lo sviluppo di nuove e indipendenti voci nel mondo della settima arte del Sol Levante? L’Oscar come miglior film in lingua straniera conquistato la scorsa domenica a Los Angeles da Ryusuke Hamaguchi con il suo film, è per l’autore il coronamento di una, ancora giovane, carriera che dai cinema indipendenti del suo paese prima, lo ha portato successivamente al pubblico internazionale dei festival, soprattutto grazie a Locarno, e poi negli ultimi 18 mesi ad una sorta di trionfo anche presso un pubblico più generalista, forse non molto abituato al tipo di cinema che Hamaguchi cerca di esplorare. Ma il suo personale successo è rappresentativo di quello che sta succedendo nel cinema d’autore del suo paese?
Il riconoscimento ricevuto dal lungometraggio adattato dalla novella di Haruki Murakami ha fatto scaturire fra gli addetti ai lavori un dibattito sulla possibilità che la vittoria del prestigioso premio possa o meno dare il via a qualche tipo di cambiamento nell’industria cinematografica, piuttosto ossificata, dell’arcipelago. Sul tema è stato scritto anche un interessante articolo sul New York Times e come sempre accade in queste occasioni, sulla rete si sono susseguite negli scorsi giorni le opinioni più varie.

DATO PER SCONTATO il fatto che non serve il sigillo di Hollywood per decretare la qualità di un film non americano o in lingua inglese e appurato che il successo di Drive My Car non significa un improvviso interesse di Hollywood o delle platee internazionali per il cinema nipponico, non stiamo parlando della cinematografia sud coreana del resto, molti esponenti del settore sperano che l’Oscar al film di Hamaguchi possa portare comunque aria di cambiamento. La speranza è che i produttori, o meglio i comitati di produzione, le coalizioni che si mettono insieme per produrre film, si rendano conto che esiste un mercato, magari di nicchia, per un certo tipo di cinema che non sia quello mainstream.
Quest’ultimo infatti, non se la passa troppo male quantitativamente, almeno pre-pandemia, il numero dei film giapponesi prodotti annualmente e quello dei film che sbancano il botteghino di casa sono in realtà in aumento, anche se la qualità non sempre è all’altezza. Uno dei maggiori problemi che affliggono però la cultura cinematografica Sol Levante al momento è più legato alla possibilità di emergere date ai nuovi registi.

NEL SECOLO SCORSO le grandi case cinematografiche avevano un sistema di apprendistato che permise a molte delle voci autoriali più significative di affermarsi, e quando cominciò il loro declino i pink eiga, i film softcore, rappresentarono una palestra formativa alternativa. Negli anni novanta del secolo scorso fu il V-cinema, film realizzati per il mercato home video, a lanciare molti dei registi che poi si sarebbero affermati, ricordiamo almeno Takashi Miike, così come successe per Hirokazu Kore’eda e Naomi Kawase nel campo del documentario, dove le lore carriere incominciarono.
Al giorno d’oggi i punti di ingresso nell’industria cinematografica giapponese sono quasi inesistenti, la vittoria di Drive My Car agli Oscar non è quindi una vittoria del cinema giapponese nel suo complesso, ma è più un’eccezione, come lo era stato One Cut of the Dead e il suo planetario successo un paio di anni fa. Detto questo, in attesa di cambiamenti più strutturali, che avverranno solo in congiunzione con cambiamenti culturali più profondi, è almeno lecito aspettarsi nel corso dei prossimi mesi il finanziamento e sostegno di qualche progetto più audace e sperimentale, e magari la scoperta di qualche nuova voce.

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