Un omaggio a Jocelyn Saab, filmare la guerra in Medio oriente contro l’oblio
Cinema Al Pompidou di Parigi la «Trilogie de Beyrouth» e altri lavori restaurati, dall'8 al 10 dicembre
Cinema Al Pompidou di Parigi la «Trilogie de Beyrouth» e altri lavori restaurati, dall'8 al 10 dicembre
Era il 1982 quando Jocelyn Saab realizzava Beyrouth, ma ville sovvertendo molti canoni dell’immaginario. La rappresentazione bellica, intanto, di una guerra come quella civile libanese che nella folgorante sequenza iniziale diviene realtà concreta, testimonianza di un vissuto nel momento stesso che questo passa allo statuto di «narrazione». E quel suo affermarsi come donna pioniera nel fare cinema e informazione – aveva iniziato come reporter – in un mondo che non prevedeva la sua presenza e la sua battaglia politica e di reinvenzione delle cose. Mentre la macchina da presa esplora foglie, detriti, allargando pian piano lo sguardo prima alla figura in piedi della stessa Saab, che di spalle fuma una sigaretta, poi a quel che rimane di un palazzo, la voce della regista dice: «Ecco la mia casa, o meglio ciò che ne rimane».
SONO I MESI dell’assedio israeliano alla città, e quel trauma di fronte alle macerie in fiamme della casa di famiglia abitata per oltre un secolo, è il punto di partenza per raccontare la guerra, la devastazione e una forma di resistenza dello sguardo che si oppone a tutto questo cercando con ostinazione nuove traiettorie, guidandoci attraverso quel paesaggio con le parole dello scrittore Roger Assaf. Lei del resto era indocile alle definizioni, ed è stata tante cose: cineasta, fotografa, giornalista, intellettuale raffinata, femminista, sempre in prima persona nelle battaglie che hanno attraversato il suo Paese, anche quando ne era fisicamente lontana, e quel Medio oriente di cui ha illuminato conflitti, ambiguità, contraddizioni e bellezza. Beirut, la città che in fondo pur vivendo a Parigi non aveva mai lasciato e che definiva «surrealista».
A Jocelyn Saab, scomparsa nel 2019, è dedicato un omaggio – dall’8 al 10 dicembre al Pompidou di Parigi – con la riproposizione dei suoi film, femministi – le donne sono sempre i personaggi attraverso i quali esplorare la Storia – e resistenti appunto, che rispetto a quanto vediamo accadere oggi, nei bombardamenti israeliani che da oltre un mese stanno massacrando Gaza e i suoi abitanti, mantengono una sorprendente attualità. Saab filmò a lungo la Palestina: Femmes palestiniennes, 1973; Les Palestiniens continuent, 1974, o Les Enfants de la guerre, 1976, un ritratto del quartiere devastato di Karantina, dove vivevano in maggioranza rifugiati palestinesi, coi bambini che giocano alla guerra aspettando il momento di prendere le armi «vere». E ancora Le front du refus in cui dei ragazzi palestinesi danzano quasi in trance nelle grotte del Libano del sud. Perché è importante allora l’opera di Saab? Fu lei e non a caso la massima promotrice della Cineteca di Beirut alla fine della guerra. Le immagini infatti nella sua ricerca sono una sorta di memoria contro l’oblio, o forse meglio ancora per l’oblio di quanto la documentazione dominante afferma come il solo punto di vista sulla storia. Saab invece ne sposta l’angolazione e porta nel fotogramma coloro che vivono la realtà di guerra, ne restituisce la lotta quotidiana per la vita contro l’indifferenza e contro il silenzio. Lo stesso che oggi avvolge in mezza Europa gli accadimenti a Gaza, con immagini mediate se non strumentalizzate. La vita di chi è lì si tace, ma è questo «archivio» ne permette la storia.
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