Un muro di manganelli contro la prima carovana migrante del 2021
Centramerica Bloccati dalla violenza degli agenti guatemaltechi i 9mila onduregni in cammino da giorni verso gli Stati Uniti. Non si passa ma si continua a partire, la disperazione può più dei fallimenti: l'Honduras è stremato da povertà e dittatura
Centramerica Bloccati dalla violenza degli agenti guatemaltechi i 9mila onduregni in cammino da giorni verso gli Stati Uniti. Non si passa ma si continua a partire, la disperazione può più dei fallimenti: l'Honduras è stremato da povertà e dittatura
È bloccata da sabato nella città di Vado Hondo, nel dipartimento guatemalteco di Chiquimila, la gran parte dei circa 9mila honduregni partiti da San Pedro Sula, tra mercoledì e venerdì, con la prima carovana dell’anno diretta negli Stati uniti.
Se la presenza di tante famiglie con bambini aveva indotto gli agenti di frontiera a El Florido a non opporre resistenza, la pietà ha avuto breve durata: a fermarli, a colpi di manganelli e di lacrimogeni, sono state le forze di sicurezza guatemalteche, responsabili del ferimento di un numero imprecisato di persone.
Solo un gruppo di migranti è finora riuscito ad avanzare; altri, più di mille, hanno già deciso di far ritorno nel loro paese su camion e autobus messi loro a disposizione dall’Istituto di migrazione guatemalteco.
Per tutti gli altri, trovare un varco non sarà facile, considerando gli oltre 5mila soldati dispiegati in sette dipartimenti e supportati da migliaia di agenti della polizia civile. Un muro praticamente invalicabile.
Delle almeno 12 carovane partite dal 2018, praticamente nessuna ha coronato il sogno di raggiungere gli Usa, ma la speranza, o ancor di più la disperazione, è più forte di ogni fallimento. Del resto, quanti dall’Honduras decidono di mettersi in viaggio non hanno molta scelta: lasciano un paese stremato da povertà, disoccupazione e violenza, il cui Pil è crollato nel 2020 del 9.7%.
Lasciano per di più quella che di fatto è una dittatura, come la popolazione definisce il regime di Juan Orlando Hernández, al suo secondo e contestatissimo mandato dopo la colossale frode elettorale realizzata alle presidenziali del 2017.
Un regime segnato, oltre che dalla repressione di ogni dissenso sociale e politico, anche da scandali di corruzione e narcotraffico: è dal 2017 che vari pubblici ministeri statunitensi accusano il governo di Hernández, sostenuto con convinzione da Washington, di aver ricevuto un milione e mezzo di dollari provenienti dal traffico internazionale di droga come contributo per le sue campagne elettorali.
Tutto si è poi aggravato con la pandemia da Covid-19, grazie a cui il regime ha avuto gioco facile per soffocare ancor di più le già limitate libertà della popolazione, scatenando al tempo stesso una dura offensiva contro le risorse naturali, attraverso concessioni a imprese minerarie, al settore idroelettrico e alle industrie del legname.
E dopo l’impatto rovinoso del Covid sull’economia informale, in cui è impegnato più del 70% della popolazione, a dare all’Honduras il colpo di grazia sono stati a novembre gli uragani Eta e Iota, di fronte a cui stati abbandonati a se stessi più di tre milioni e mezzo di honduregni.
In questo quadro, non può che suonare paradossale il comunicato emesso al termine della riunione sulla questione migratoria sostenuta l’11 gennaio a El Corinto dai rappresentanti di Messico, Guatemala, El Salvador e Honduras, tutti impegnatisi a proteggere i diritti umani dei migranti sulla base del principio della responsabilità condivisa, in maniera che la migrazione avvenga in maniera «sicura, ordinata e regolare».
Nessuno dei governi, a cominciare proprio dall’honduregno, ha tuttavia mosso un solo passo in questa direzione, come ha denunciato il sacerdote José Luis González, della Red Jesuita con los Migrantes: «Quello che c’è qui è piuttosto un’irresponsabilità condivisa. È bello parlare di migrazione ordinata, sicura e regolare e poi non fare nulla per garantirla».
Perché, ha aggiunto, se qualcosa è stato fatto, è solo l’inasprimento delle misure anti-migranti per accaparrarsi i favori del governo statunitense.
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